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‘Scafista’ a chi? Le storie di Maysoon e Marjan, le due attiviste iraniane che anzichè trovare in Italia la giusta protezione di rifugiate finiscono in carcere con accuse assurde. La testimonianza-denuncia di Stefania Pagliazzo

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Stefania Pagliazzo, psicoterapeuta, è da tempo impegnata nella collaborazione con diverse Ong in contesti d’emergenza, soprattutto in relazione all’arrivo di migranti sulle nostre coste; è attivista per i diritti umani ed è stata candidata alle elezioni europee del maggio scorso nella lista Alleanza Verdi-Sinistra con la quale ha contribuito a suon di preferenze personali al vistoso successo elettorale che anche in Sicilia-Sardegna ha comportato l’elezione di una rappresentanza a Strasburgo (Ilaria Salis la quale ha optato per altro collegio, come il secondo arrivato Mimmo Lucano, favorendo così l’elezione di Leoluca Orlando).
Sulla base della propria esperienza sul campo Stefania Pagliazzo affronta una grande emergenza del nostro tempo: l’inadeguatezza rude e ingiusta di leggi, prassi di polizia giudiziaria, ottusità mentali, sommarie criminalizzazioni da parte dell’autorità giudiziaria in violazione di principi basilari dello Stato di diritto, scorciatoie burocratiche, pregiudizi disumani che concorrono ad aggravare una già gigantesca strage degli innocenti che da decenni si consuma sotto gli occhi di tutti.
Ecco la testimonianza-denuncia di Stefania Pagliazzo.
La banalità del ma(r)e  
Si sa che attraversare il mare su un gommone fatiscente o un’imbarcazione di fortuna è cosa assai pericolosa. E sicuramente lo sanno tutte le persone che ogni giorno lo solcano rischiando la vita per mano di trafficanti senza scrupoli che nella maggior parte dei casi hanno il sostegno economico ed il mandato politico da parte del governo italiano ed europeo. Quello che non sanno è un altro modo in cui quel mare che li separa dalla salvezza può essere estremante pericoloso. E non sto facendo riferimento alle possibili condizioni avverse meteo-marine, o al pericolo di naufragio e annegamento o al rischio di non essere giustamente soccorsi come previsto dalla legge del mare. C’è un rischio che non può essere contemplato da chi parte, ed è il rischio che corre chi a terra ci è arrivato, ingenuamente felice, per aver portato a termine la traversata più mortale al mondo. E’ il rischio di essere accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, volgarmente definito come reato di “presunto scafista”.
Da anni assistiamo ad un copione sempre uguale che si ripete agli sbarchi: per ogni arrivo qualcuno deve essere accusato di aver favorito illegalmente l’ingresso di disperati e disperate, come lui o lei, sulle coste italiane. Come avvengono questi passaggi è materia largamente conosciuta ma di cui si parla troppo poco. Chi lavora agli sbarchi a vario titolo e chi si è interessato al tema sa che le modalità di identificazione dei “capitani” avvengono sempre allo stesso modo. Procedure veloci e standardizzate vengono effettuate dalle forze dell’ordine, spesso con poco ausilio di adeguata mediazione linguistica e nessuna presenza di figure legali, prevedendo che gli stessi compagni di viaggio divengano “testimoni accusatori” di chi avrebbe in qualche modo aiutato a compiere la traversata complice dei veri trafficanti, il designato “presunto scafista”.
Immaginate di avere trascorso mesi, a volte anni, in Libia magari, di essere arrivati lì dopo avere attraversato l’inferno del Sahara e di essere fuggiti da guerre o dalla miseria, di essere stati rapiti e torturati, di avere visto morire sotto i vostri occhi di stenti o di percosse i vostri parenti o altri sventurati compagni di viaggio, di avere pagato con il poco denaro a disposizione o con quello che è stato estorto alla vostra famiglia tramite la visione delle torture a voi inflitte o che vi siete guadagnati con il lavoro da schiavi e che, infine, degli aguzzini – gli stessi che vi hanno imprigionato e torturato – vi diano la possibilità di salire su un’ imbarcazione. Quindi, avete attraversato il mare, siete vivi e siete appena approdati a terra, e improvvisamente, prima di qualunque altra cosa, delle persone in divisa, armate vi chiedano in una lingua che non conoscete di identificare chi ha condotto la barca o se voi stessi avete partecipato alla guida.
Come vi sentite? Spaventati? Confusi? Stanchi?
Sicuramente c’è il desiderio di essere nuovamente salvati. Perché il vissuto è di essere ancora in pericolo.
Dopo la strage di Cutro del 2023 l’attuale governo, invece di ricercare le responsabilità della morte di 94 persone di cui 34 tra minori adolescenti e bambini, dichiara di avere trovato la panacea ed il rimedio universale all’annosa questione della tratta: ovvero, l’inasprimento della caccia agli scafisti “in tutto il globo terracqueo”, oltre a fare in modo di rendere ancora più difficile il coordinamento dei soccorsi in mare, la possibilità di avere permessi regolari e il potenziamento dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR).
Chi sono i presunti scafisti a cui il governo ha dichiarato guerra con pene severe, sicure e lunghe?
Abbiamo conosciuto le storie di Maysoon e Marjan, le due attiviste iraniane sbarcate e arrestate in Calabria che, invece di ottenere la sicurezza e la protezione che meritavano, hanno ricevuto la grave accusa di essere delle trafficanti di esseri umani.
Non abbiamo conosciuto le storie di centinaia di altri uomini e donne attualmente incarcerate con procedimenti in corso o con condanne definitive con la stessa accusa e lo stesso copione di come si sono svolti i fatti.
Il mio lavoro me ne ha fatti incontrare tanti. Di ognuno mi piacerebbe raccontare la storia. Sono storie disperate, per questo meritano attenzione. Invisibili tra gli invisibili, vittime tra le vittime, capri espiatori di una falsa battaglia, uomini e donne sacrificati per portare avanti la propaganda in materia di sicurezza che da anni viene fatta sulla loro pelle. Anni di vita persi mentre restano reclusi a pagare per fatti a cui, nella maggior parte dei casi, non hanno mai partecipato.
Una riflessione mi ha sempre colpita più di tante altre. Ho sempre pensato che l’esperienza della reclusione sia una delle più penose dal punto di vista esistenziale che l’essere umano possa sperimentare. A maggior ragione credo che l’essere reclusi senza sentirsi responsabili dei reati di cui si è accusati sia un’esperienza insopportabile, tra le più traumatiche a livello psicologico e fisico, che si possano subire.
La definizione contenuta nell’art. 1 della Convenzione ONU del 1984 designa la tortura come “Qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.
Non posso arrivare a conclusioni giuridiche perché non ne ho la competenza ma posso suggerire riflessioni diagnostiche e cliniche da un punto di vista psicologico. Molte persone che ho ascoltato in carcere sono arrivate in Italia in condizioni fisiche e psichiche molto compromesse. Alcune manifestano, da subito o nel tempo, sintomi correlati allo Stress Post-Traumatico (PTSD) da trauma estremo: sintomi intrusivi, alterazioni marcate dell’Arousal e della reattività, disturbi psicosomatici, disturbi depressivi, disturbi da abuso di sostanze, disregolazione emotiva e degli impulsi, cambiamenti della percezione di sé e nelle relazioni. Vite spezzate dalle gravi esperienze traumatiche che rimangono di difficile trattamento.
Nonostante questi eventi molte delle persone ascoltate in carcere accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina inizialmente sembrano avere una buona tenuta fisica e psicologica. Ciò che mantiene integre le funzioni psicologiche è l’esperienza sana di avercela fatta, di essere sopravvissuti, di sentirsi in sicurezza e la speranza di portare a termine il proprio progetto migratorio; soprattutto il desiderio di poter lavorare e contribuire a sostenere economicamente la famiglia e la comunità di origine. La maggior parte di loro hanno avuto questo mandato originario e se ne sentono fortemente responsabili. Quando queste persone si ritrovano in carcere con accuse che sentono false, sperimentano il vissuto di essere costrette a interrompere definitivamente le loro aspettative di vita. Conseguentemente le loro condizioni psicofisiche peggiorano drasticamente o cominciano a slatentizzare sintomi che fino ad allora erano riusciti a contenere. L’esperienza dell’arresto, della detenzione ingiusta, delle lunghe pene, viene vissuta come esperienza RI-TRAUMATTIZZANTE o di TRAUMATIZZAZIONE SECONDARIA che comporta l’insorgenza a scoppio ritardato di un PTSD che sino ad allora era sotto controllo o addirittura non ancora insorto.
Samir, giovane ragazzo egiziano arrestato pochi mesi fa, manifesta inizialmente un quadro clinico stabile, sembra avere retto più di due mesi di detenzione in Libia e le torture subìte; sulle sue gambe e sulla sua schiena ne porta i segni. Esiti da colpi di bastone e bruciature marchiano la sua pelle. Poco alla volta, giorno dopo giorno, mentre Samir prende coscienza della sua grave posizione giuridica inizia a manifestare sintomi dissociativi e dispercezioni, sente delle voci nella testa e vede di fronte a sé figure minacciose che lo vogliono uccidere.
Samir comincia a vivere nel terrore. Non vuole medicine perché nel suo paese di origine tempo prima aveva provato a curarsi per una crisi ma poi era stato bene tanto che aveva deciso di partire per aiutare la sorella minore e la famiglia. Per Samir inizia una veloce ed inesorabile regressione, il suo corpo e la sua postura si modificano, non riesce più a deambulare da solo e soprattutto non riesce a spiegarsi perché si trova in carcere, pensa ad un maleficio. Non riesce a capire cosa ci fa in quella cella da innocente. Samir non contiene più gli sfinteri e fa la pipì a letto tanto che verbalizza di sentire vergogna nei confronti di alcuni compagni di cella che lo scherniscono. Il quadro clinico non rientra, ad oggi peggiora.
La storia di Samir rimane reclusa dentro quattro mura insieme a quella di altre centinaia di persone che attualmente vivono la sua situazione.
I detenuti più problematici che ho incontrato presentano in maniera ricorrente comportamenti dismetrici, gesti auto ed eterolesivi, dipendenza da farmaci e difficoltà di adattamento all’ambiente ed alla convivenza con gli altri detenuti, soprattutto italiani. Con frequenza a volte ciclica vengono ogni giorno compiuti agìti autolesivi (ingestione di corpi estranei, tagli, e tentativi di suicidio).
Samir e tutti gli altri volevano solo lasciarsi alle spalle le persecuzione del loro paese di origine e le torture subìte nel percorso migratorio e ce l’avevano quasi fatta.
Li dovevamo solo proteggere per loro diritto.
E invece sono stati torturati anche in Italia.
Non avevano messo in conto la banalità del ma(r)e.