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Macbeth nello scenario del castello di Donnafugata: ‘Palchi diversi’ illumina Shakeaspeare di luce propria

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William Shakespeare è senza dubbio, in assoluto, l’autore teatrale più rappresentato di sempre, nonostante siano trascorsi solo poco più di quattro secoli – rispetto per esempio ai 25 dei tragici greci a noi noti – da quando era un drammaturgo immerso nel presente ed attore egli stesso. Le tante messinscene delle sue opere, nell’intera storia del mondo moderno che convenzionalmente si fa cominciare un secolo prima del suo teatro e in quella successiva fino ai nostri giorni, hanno scoperto e scandagliato ogni piega nascosta del genio di Stratford.

Eppure, oltre quattrocento anni dopo, può ancora capitare che l’esperienza di un suo testo – commedia, dramma storico o tragedia – riesca a cogliere ed inverare qualcosa di nuovo e di autentico. Quando ciò accade – evenienza rara – è merito di chi affronta Shakespeare avendolo compreso, elaborato, focalizzato fino in fondo e lo metta in scena in totale libertà artistica e senza timori reverenziali né cedimenti a collaudati e rassicuranti cliché. Se poi si aggiunge – cosa ancora più difficile a compiersi – il tocco felice e ispirato di scelte mirate, l’operazione brilla di luce propria, non solo nella lunga sequenza storica di tutte le quinte allestite nei secoli, ma proprio nel rapporto diretto e simultaneo con il testo originale e con la sapienza del sommo autore, il più rappresentato, come abbiamo detto; ma anche il più letto, citato, rivoluzionato e stravolto: destino naturale per il più prolifico inventore di parole risolute e spiazzanti, profondo conoscitore delle dinamiche politiche e sociali, abile creatore di wit e giocoliere di sottigliezze lessicali, sagace ideatore di plot sull’ambiguità sessuale e – nonostante tutto ciò, o forse a causa – il più romantico e il più filosofico dei drammaturghi.

E’ di questa luce che brilla il Macbeth in scena in cinque serate di luglio, per la regìa di Vittorio Bonaccorso, sulla scalinata del castello di Donnafugata, scenario collaudato e ormai naturale – è la quindicesima edizione – di ‘Palchi diversi estate 2024’, marchio distintivo della Compagnia G.o.D.o.T. di Federica Bisegna e Bonaccorso i quali da quasi trent’anni ne sono anime e corpi: rectius, anima e corpo.

Una luce forte, nuova, ‘diversa’ come il suggestivo palco ‘verticale’ della scalinata, una luce che costruisce il suo cono, nella dimensione tipica spaziotempo, nelle musiche di Giuseppe Verdi che Bonaccorso ha voluto e selezionato con cura nel suo Macbeth. Un cono, se vogliamo rimanere alla metafora presa in prestito dalla fisica, avente il vertice verso il basso: proiettato verso il futuro, proprio per la carica d’originalità di questa scelta operata dal regista, integra e potente, non solo per l’effetto musicale, che anche da solo non è poca cosa, ma per la riassunzione di tutti i motivi verdiani nella forza scenica della più fulminante tragedia del grande drammaturgo.

Già l’anno dopo averla scritta nel primo decennio del ‘600, probabilmente nel 1605, il Bardo la mise in scena con i suoi (ne era autore e attore) Chamberlains’s Men che, avocati a sè nel 1603 dal nuovo Re d’Inghilterra Giacomo I, e così diventati King’s Men, erano orgoglio e vanto della corona, tant’è che al sovrano scozzese Shakespeare dedica le opere maggiori di quegli anni, Otello, Re Lear e, appunto, il Macbeth: drammi aperti, nei quali l’approdo finale non è una risposta ma un insieme di domande; l’essenza non risiede nell’esito ma nell’esperienza; il messaggio non è inscritto nella sorte dei personaggi ma nella catarsi operata dall’azione scenica.

Con Macbeth, la più breve ma anche la più complessa e sfaccettata delle tragedie, Bonaccorso va al cuore dell’opera di Shakespeare. Il regista si sottrae alla quieta e sperimentata normalità – esclusiva di rischi, ma anche di apporti e impronte riconoscibili nel racconto scenico – e, a ragion veduta, interpella e immette in prosa uno dei più grandi compositori ed operisti di tutti i tempi il quale, proprio con Macbeth, 177 anni fa (il 14 marzo 1847 alla Pergola di Firenze: era la decima opera lirica di Verdi) rivoluzionava il proprio stesso teatro e imprimeva una svolta al melodramma in Italia, e quindi nel mondo.

Una scelta di grande pregio, soprattutto se apprezzata nella scena complessiva del movimento verticale sul palco-scalinata in cui gli interpreti entrano ed escono salendo e scendendo;  e nella sapiente regìa, l’una e l’altra volte a focalizzare lo smarrimento esistenziale dei protagonisti, il regicida mosso da incontrollata ambizione e, soprattutto, la consorte lady Macbeth, capace per sete di potere di convincere il marito, indeciso, a compiere crimini impensabili ma poi incapace di reggerne la deriva di violenza, arrivando alla follia e, forse, al suicidio, mentre Macbeth imboccherà la via della disumanizzazione di se stesso, perdendo il contatto con la realtà.

Nel Macbeth di Bisegna e Bonaccorso scorre limpida la cifra sostanziale dell’opera, tutt’altro che univoca pur nell’orrida esasperazione della via del male e del delitto come mezzo dell’affermazione di sé imboccata dai due personaggi.

All’inizio della tragedia il protagonista è un uomo leale che ha dato prova del suo valore in battaglia ed ha meritato perciò titoli e onori. Ma la profezìa delle streghe  – sempiterno elemento dell’irrazionale o del soprannaturale, tarlo congenito dell’umano – instilla in lui il cieco seme dell’avidità che corrode la sua virtù: egli teme i pensieri cui lo spinge la brama, ma non riesce a sottrarsi, poiché alla sua smodata ambizione si unisce quella della moglie che lo sprona e lo conduce all’assassinio. Lady Macbeth tramuta il pensiero in azione, dando vita ad una tragedia segnata dagli opposti: “Il bello è brutto, il brutto è bello”. La dicotomia, e lo slittamento di ciò che è in quello che non è, sono l’input della tragedia che si consuma nel rovescio dell’armonia, nel caos, nella disgregazione.

Sangue, tempesta, rumori, tamburi, civette, foreste in movimento, battaglie, maledizioni, magie, assassinii, malattia: tutto in una sola storia, animata da un unicum scenico in cui il testo di prosa, le musiche, le danze, la recitazione, gli attori, l’azione sono tasselli di un puzzle armonico e coerente. La grandezza inquietante dei coniugi Macbeth sta nel non perdere mai totalmente un briciolo di visione del bene, la consapevolezza di infrangere le leggi e la coscienza della propria empietà.

Tutto ciò risulta magicamente trattenuto, custodito ed esaltato nel Macbeth di ‘Palchi diversi’, sublimato nella riflessione finale del protagonista, contenuta nella quinta scena del quinto atto, ma la riduzione di Bisegna non lascia rimpianto alcuno per la partizione shakespeariana: dodici versi pronunciati quando apprende della morte della moglie:

<<Doveva pur morire, presto o tardi;
il momento doveva pur venire
di udir questa parola…
Domani, e poi domani, e poi domani,
il tempo striscia, un giorno dopo l’altro,
a passetti, fino all’estrema sillaba
del discorso assegnato e i nostri ieri
saran tutti serviti
a rischiarar la via verso la morte
a dei pazzi. Breve candela, spegniti!
La vita è solo un’ombra che cammina,
un povero attorello sussiegoso
che si dimena sopra un palcoscenico
per il tempo assegnato alla sua parte,
e poi di lui nessuno udrà più nulla:
è un racconto narrato da un idiota,
pieno di grida, strepiti, furori,
del tutto privi di significato!>>.

Nessun brano della letteratura inglese, a parte forse il monologo di Amleto ‘essere o non essere’, è famoso quanto le parole del Macbeth di fronte alla sua fine: è la denuncia della vacuità della vita, della sua precarietà e incertezza, tema dominante nel Barocco che segna la cultura al tempo del Bardo il quale compendia mirabilmente nelle sue opere l’essere figlio del Rinascimento, quindi promotore dell’uomo che afferma se stesso con la propria creatività e razionalità contro i limiti imposti dalla realtà e dal destino, e al tempo stesso portatore della nuova sensibilità del Barocco con l’intero suo corollario di implicazioni esistenziali: le lacerazioni della coscienza dell’individuo, l’incertezza degli ideali, la mutevolezza della sorte, il mistero insondabile della vita accompagnato da un senso di smarrimento. Shakespeare si interroga sull’identità dell’uomo, su certe assurdità dell’esistenza, sui misteri profondi e inconfessabili dell’animo umano, senza però giungere a una verità risolutiva ed anzi tenendo sempre aperto un dubbio radicale: se la vita, oltre a essere breve, fragile e minacciata dalla continua incombenza della morte, sia anche un sogno, un’illusione. E tale dubbio, motivo di fondo della poetica, della filosofia e della drammaturgia shakespeariana, acquista la sua forza maggiore nei versi già citati del finale del Macbeth.

In pochi come Shakespeare, peraltro celebrato da una schiera di grandi come Voltaire, Goethe, Stendhal, Hugo, hanno influenzato l’intera letteratura mondiale nei secoli successivi (un esempio, tra i tantissimi, restando al Macbeth, è il titolo, ‘Out, out -’, di un componimento del poeta e drammaturgo statunitense Robert Lee Frost) e, ancora più profondamente, e senza soluzione di continuità, la cultura popolare.

Nell’era del web, tra smartphone, audiolibri ed ebook, il brand Shakespeare è sempre il più richiesto e proprio il Macbeth il titolo più venduto. Senza dire che, ancora oggi, vengono acquistate a decine di migliaia di dollari ognuna le copie ancora in circolazione del First Folio, il testo più attendibile per una ventina di opere shakespeariane, pubblicato nel 1623, sette anni dopo la morte, con il titolo ‘Mr William Shakespeares Comedies, Histories & Tragedies’, contenente 36 opere: prezzo 1 sterlina (circa 130 euro di oggi), stampa in mille copie in gran parte andate perdute; oggi ne risultano censite 228 di cui solo una quarantina integre e una di queste, la sola in Europa meridionale, è nella biblioteca universitaria di Padova.

Shakespeare nel suo tempo fu pienamente immerso, con libertà di genio creativo e capacità realistica di stare al mondo. Certo, ebbe un po’ di fortuna a vivere, e a scrivere, in era elisabettiana e poi giacobita, sotto due sovrani, Elisabetta I e Giacomo I, i quali, quando la censura era ancora regola, stimolarono una grande fioritura delle lettere e delle arti. Due monarchi – di grande cultura in particolare Giacomo – accomunati da qualche tratto di originalità biografica: Elisabetta ‘la regina vergine’ e dopo di lui il primo sovrano di tutte le isole britanniche, bersaglio comune di un famoso epigramma che recitava Rex fuit Elisabeth, nunc est regina Jacobus (Elisabetta fu re: ora è regina Giacomo): al che vien da chiedersi se c’entrasse nulla il drammaturgo beffardo capace di aforismi dissacranti e scatti di penna tanto velenosi quanto divertenti.

Dopo questa divagazione sull’autore, utile solo per cogliere la grandezza della trasposizione scenica del Macbeth di ‘Palchi diversi’ (neanche prima avremmo avuto timore a pronunciare il nome, contro la scaramanzia di certi ambienti teatrali inglesi per i quali, convinti che il titolo sia di malaugurio, il capolavoro del Bardo è solo ‘The Scottish Play’, la tragedia scozzese), torniamo, e concludiamo, con le cinque rappresentazioni di luglio, sempre applaudite da un pubblico numeroso, nella suggestiva atmosfera di Donnafugata.

Se Federica Bisegna ha curato la riduzione e i costumi e Bonaccorso, come abbiamo visto, la scena e la regìa, entrambi, attori di talento cristallino, sono anche protagonisti totali e assoluti nell’intero campo d’azione, interpreti perfetti e naturali del testo più complesso e inesplorabile concepito dal più grande genio del teatro.

E’ in questo contesto d’insieme che assumono il giusto rilievo l’innesto e l’intessitura delle musiche di Verdi, il quale dell’opera compose due versioni ma poi non trovò eredi all’altezza, tant’è che dovette passare un secolo prima che il Macbeth tornasse, in versione lirica, sulla scena, con Maria Callas, alla Scala, il 7 dicembre 1952.

Nella prosa di Bisegna e Bonaccorso, la lirica verdiana occupa uno spazio, intenso e potente, che magnifica il risultato teatrale, coerente con il rispetto storico che si deve all’archetipo shakespeariano della brama di potere e dei suoi pericoli, ma soprattutto illuminato dalla coraggiosa e perigliosa scelta artistica di scrutare e valorizzare le forti ripercussioni filosofiche del destino, dell’azione e della volontà nonché delle ombre e dei misteri che li avvolgono.

Ogni parola risuonata sulla scalinata adiacente al parco del castello – ambienti non molto diversi, possiamo immaginare, dal maniero di Macbeth descritto da Shakespeare e dalle terre di confine tra Scozia e Inghilterra in cui si consuma il finale – ogni gesto scenico, ogni salita e discesa, ogni entrata e uscita, nella fusione armonica di testo, scena, regìa e costumi, rendono The tragedy of Macbeth quel dramma immortale di cui ‘Palchi diversi estate 2024’ sa fissare, raccogliere e tesaurizzare, per quanto misterioso e sfuggente, l’intero messaggio universale del capolavoro senza tempo del Bardo, e a non disperderne un solo frammento.

Merito non solo dei già citati protagonisti, ma dell’intero cast di scena, un gruppo di attori di sicura qualità, dal bravissimo Lorenzo Pluchino ad Alessio Barone, Benedetta d’Amato, Alessandra Lelii, Anna Pacini, Angelo Lo Destro, Mario Predoana, Cristiano Marzio Penna e ancora Marco Cappuzzello, Leonardo Cilia, Andrea Lauretta, Emili Mankolli, Maria Flavia Pitarresi, Althea Ruta, Mattia Zecchin, Anna Passanisi.

ADN