Lobbies basate sull’orientamento sessuale degli aderenti (che siano diaconi, sacerdoti, vescovi o cardinali) e capaci di muovere il potere, determinare gli atti amministrativi o giudiziari, influenzare istituzioni, corrompere organismi. Il cemento di tali aggregazioni è l’interesse concreto verso relazioni e incontri sessuali. Nella realtà di vita quotidiana la violazione degli obblighi del celibato è prassi corrente. Il problema non è (soltanto, eventualmente) di coscienza individuale, ma di sistema. Il bisogno dell’ipocrisia e della finzione impone la menzogna la quale, a cascata, produce e rende necessari l’inganno, l’intimidazione, la violenza, l’intrigo, l’abuso: strumenti che propagano i loro effetti su tutti i piani della vita della comunità, dai vertici ai fedeli. La ‘lezione’ del caso-Salonia con l’intero portato dei tanti atti, anche istituzionali, piegati a logiche private e di parte
In questa puntata finale della nostra inchiesta ecco le notizie relative ad aspetti non ancora trattati e, soprattutto, alcuni elementi da fissare conclusivamente per la migliore comprensione delle vicende che s’intrecciano in un unico grande-affaire: la cosiddetta ‘InGiustizia Vaticana’ che proscioglie il colpevole, condanna l’innocente, protegge i membri del clero condannati o accusati di violenza sessuale – spesso in danno di minori – perseguita le vittime e punisce con la ritorsione e la vendetta i testimoni di verità.
Nell’articolo precedente abbiamo lungamente trattato le dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria da Giovanni Salonia – il sacerdote e frate cappuccino ‘quasi vescovo’, imputato di violenza sessuale aggravata in danno di una suora e poi prosciolto per querela tardiva della vittima – e le abbiamo analizzate in relazione alla denuncia e ad altre risultanze investigative poi vanificate dallo stop al processo.
Questo è il nodo centrale della vicenda culminata anni dopo nella condanna canonica, il 19 giugno 2023, di Nello Dell’Agli, sacerdote-psicoterapeuta testimone nel procedimento ecclesiastico (definito ad aprile 2017 dalla commissione guidata dal vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana) e in quello penale imbastito nel 2018 dalla proccura di Roma nei confronti del francescano e conclusosi il 28 febbraio 2020 con sentenza del tribunale di non luogo a procedere per la ragione spiegata.
Partiti proprio dalla condanna canonica recente, mero atto di sopruso e d’arbitrio perché in totale contrasto con le evidenze processuali sulle quali la sentenza dovrebbe fondarsi, ci siamo imbattuti in diverse altre vicende collegate ed ora ci apprestiamo alle conclusioni.
La querela della suora per violenza sessuale, il termine di legge e la sua interpretazione: l’arretratezza delle norme italiane e l’errore del giudice
Intanto però una riflessione sui termini di legge, nell’ordinamento italiano, della denuncia in casi di violenza sessuale è necessaria.
Imporre come opzione unica il momento in cui la violenza avviene, e non quello della sua ‘scoperta’ o presa di coscienza da parte della vittima, equivale a ‘condannare’ quest’ultima alla sua stessa violenza, strappandole il diritto di denunciarla. Che giustizia è questa? Se una persona non sa di essere violentata nel momento in cui subisce lo stupro e non lo sa ancora nel periodo successivo rientrante nel termine di legge, come può presentare la necessaria querela, posto che se ne avesse coscienza lo farebbe? Perché impedirglielo appena si trovi a poterlo fare? Se una donna scopre o apprende in seguito, quando il termine dai fatti è decorso, di essere stata drogata e stuprata perché non può più denunciare l’orribile crimine subito?
La questione è prima legislativa, poi giurisprudenziale e – last but not least – di mero buon senso e onestà intellettuale che dovrebbero ispirare e guidare la definizione corretta sia della prima che della seconda.
Allo stesso modo, nel nostro caso, la domanda è: perché la violenza subìta – e camuffata non dalla droga di una sostanza chimica ma da quella dell’inganno – non deve potere essere denunciata?
A prescindere poi dalla discrepanza tra i due termini che andrebbe colmata estendendo il dies a quo dal momento del fatto a quello della sua conoscenza o presa di coscienza, c’è poi un altro dato, mostruosamente evidente nella legislazione italiana, che va fortemente contestato: la brevità del termine: dodici mesi che, fino al 2019, quindi al tempo dei fatti di cui parliamo, erano appena sei. Altra cosa le reali possibilità probatorie decorso un lungo tempo.
In molti Stati occidentali ai quali dovremmo guardare con attenzione, tale termine non è mai così breve. In vari Paesi europei, come la Spagna, e in molti degli Stati uniti esso supera i dieci anni; in Francia il termine dato alle vittime è di trent’anni.
In Italia non solo tale termine è di appena un anno ma, addirittura, in occasione di casi di cronaca di particolare impatto mediatico abbiamo visto come potenti familiari e difensori degli imputati lamentino il ‘lungo’ termine (di alcuni giorni o settimane: sic!) in cui le rispettive denunce siano state presentate: segno di leggi, giurisprudenza e di una cultura dominante nella coscienza diffusa saldamente protesi alla difesa degli stupratori, contro le vittime.
Ancora oggi, pur con il ‘Codice rosso’, leggi ordinarie molto indietro
rispetto alla Costituzione. Ecco perchè in Italia non può esserci alcun Metoo
In Italia purtroppo ancora oggi paghiamo un prezzo salato ad un retaggio sempre forte e opprimente di cultura patriarcale. Del resto ancora nel 1981 nel nostro ordinamento esistevano il matrimonio riparatore che – appunto – metteva lo stupro al riparo da responsabilità penali; nonchè il delitto d’onore equivalente a tolleranza piena e praticamente assolutoria dell’omicidio <<a seguito di illegittima relazione carnale>> della moglie o della figlia o sorella, ma non, per negata inversione di genere non essendovi affatto parità, del delitto uguale e contrario del coniuge maschio fedigrafo o del figlio o fratello.
Infatti è solo con la legge 442 del 5 agosto 1981 (33 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione), legge figlia della presa di coscienza sociale spinta dal gesto esemplare della diciassettenne siciliana di Alcamo Franca Viola la quale nel 1965 dopo uno stupro rifiuta il matrimonio riparatore, che viene abrogata la rilevanza penale della ‘causa d’onore’ e cancellati due articoli del codice fascista varato da Mussolini e Rocco nel 1930: il 544 sul ‘matrimonio riparatorio’ e il 587 sul ‘delitto d’onore’.
Inoltre fino al 1996 (nonostante, in quel momento, quasi mezzo secolo di Costituzione vigente) la violenza sessuale in Italia è un reato contro la morale e non contro la persona, norma coerente con un solo postulato: la donna in quanto tale non è persona, ma oggetto.
Tutto ciò ci spiega perché una legge come quella denominata Codice rosso sia molto recente (2019) e perché essa, pur con tutti i passi avanti nel contrasto della violenza sulle donne, conservi ancora molte lacune ed abbia esteso il termine di sei mesi ad appena dodici. Sì, solo dodici.
Il Metoo che smaschera le violenze dei potenti di Hollywood non potremmo mai averlo in Italia, visto che Harvey Weinstein è stato denunciato dopo 14 anni. Contro il produttore di film ricoperti di premi – fondatore della Miramax poi ceduta alla Disney per 80 milioni di dollari, e in seguito della Weinstein company – nessuna delle donne stuprate in quasi un ventennio ha il coraggio e la forza di muovere un dito. Egli non è solo un ricchissimo produttore cinematografico, ma anche un personaggio influente, grande finanziatore delle campagne elettorali di presidenti e candidati non eletti d’un soffio alla Casa Bianca (Barack Obama, John Kerry, Hillary Clinton), addirittura campione di battaglie etiche e sociali: nel Cda della Robin Hood Foundation, attivo e generoso in campagne contro la povertà, l’Aids, la sclerosi multipla, il diabete giovanile.
Solo nel 2017 (stesso periodo dell’affaire-Salonia, da questa parte dell’Oceano) egli comincia ad essere denunciato da tante vittime, solo dopo (e quindi grazie a) l’inchiesta de The New York Times che per primo rivela le violenze. Fino a quel momento vittime, anche importanti come famose attrici di Hollywood, non denunciano per timore di non essere credute e di subire tutte le ritorsioni del caso: del resto, dopo le prime querele, Weinstein ingaggia uomini del Mossad per costringere le vittime a ritirarle.
Pur nell’evidente gap di notorietà dei personaggi in campo e nei diversi mondi delle loro vite e affari (il grande cinema in un caso, la Chiesa cattolica nell’altro) il richiamo comparativo ci è utile per due considerazioni: le stars del cinema denunciano solo dopo i servizi del quotidiano newyorchese dai quali si sentono incoraggiate nella propria forza di potere condurre la battaglia di giustizia; la suora del Nord Italia decide di farlo spinta dal bisogno etico e religioso di avvertire la Chiesa e aiutarla a salvarsi da errori gravi come quello di nominare vescovo colui che lei scopre essere stato il suo stupratore.
Nel primo caso trascorrono tanti anni, ben 14 rispetto ad uno degli episodi più importanti accertati, ma per altri tale tempo è anche più lungo e ciò non impedisce alla giustizia americana di incriminare, processare e condannare Weinstein: a 23 anni di carcere l’11 marzo 2020 con sentenza della Corte suprema dello Stato di New York; ad altri 16 anni con verdetto di una giuria di Los Angeles il 23 febbraio 2023.
Peraltro le attrici-vittime sanno subito cosa subiscono e scelgono di non denunciare per le ragioni dette. La suora-paziente, preda del suo terapeuta-sacerdote durante la terapia, invece ignora il crimine quando lo subisce ma, appena lo scopre, denuncia subito, entro il termine della legge italiana allora fissato in sei mesi.
Non sappiamo se lo avrebbe fatto ugualmente qualora il Pontefice non avesse scelto proprio il frate cappuccino suo abusatore tanto caro all’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice per l’incarico di suo vescovo ausiliare. Ma è molto probabile di no perché il primo atto compiuto dalla religiosa dopo la scoperta dello stupro ai suoi danni è una lettera privata al Papa alla quale segue la dolorosa presa d’atto che la linea di difesa pubblica del sacerdote-psicoterapeuta da parte dello stesso Pontefice (nonostante la sua richiesta di perdono – che a questo punto sa di beffa – alla suora) non muta affatto ed anzi diventano palpabili i segni della ritorsione e del dileggio contro i testimoni di verità da parte di giudici ecclesiastici e alte gerarchie vaticane.
La suora che denuncia violenze sessuali subisce poi anche quelle ‘legali’.
Norme sbagliate, prassi inadeguate e ritardi culturali: i rimedi necessari
A fronte di tutto ciò risultano assurde la norma della legge italiana che fissa un termine così breve per la denuncia della vittima e, ancora di più, l’interpretazione del Gup di Roma che omette di rilevare il vero dies a quo della scoperta dello stupro, diverso da quello in cui esso avviene.
Oggi è il 25 novembre, ‘giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne’ istituita 24 anni fa dall’Assemblea generale delle Nazioni unite ed è quindi l’ennesima occasione rituale di retorica liturgia nei proclami di lotta contro questa gravissima piaga sociale, tanto più dopo la commozione collettiva per l’uccisione di Giulia Cecchettin, penultimo caso di una lunga catena di femminicidi che, solo in Italia e solo nel 2023, ha già prodotto 55 vittime. Più di una ogni sei giorni. E questo è solo il numero delle donne uccise dai loro partners o ex partners, perché sono 84 quelle assassinate, in Italia nel 2023, in ambito familiare o affettivo e 104 il loro numero complessivo su un totale di 287 omicidi.
In Italia si farebbe bene a focalizzare anche taluni gravi inadeguatezze della normativa, ancora fortemente carente seppur molto più avanzata rispetto al passato. A parte molte cose utili e di mero buon senso che si potrebbero fare (ma oggi l’Italia ha una maggioranza parlamentare ed un governo guidati da partiti che non hanno approvato neanche la convenzione di Istanbul, che è appena il minimo) indichiamo solo alcuni degli interventi più urgenti ad efficacia immediata: qualificare stupro ogni rapporto sessuale privo di consenso come già oggi la legge vigente in 17 Paesi europei su 31 riconosce (quale distanza culturale ci separa, solo per fare qualche esempio tra i 17, da Stati come Cipro, Grecia, Croazia, Spagna, Islanda, Germania, ecc….?); estendere il termine per la presentazione di querela, almeno al di sopra dei dieci anni come in Spagna, se non a trenta come in Francia; garantire effettiva immediata e simultanea protezione alla donna in pericolo dal momento stesso in cui entra in un ufficio di polizia per presentare la denuncia contro stalkers, tanto più se partners o ex partners violenti. Tra gli strumenti operativi per le emergenze di ogni momento si potrebbe creare, promuovere e diffondere, anche nelle scuole con incontri mirati alla sensibilizzazione, un’app che al primo segnale consenta alla potenziale vittima di lanciare, ad un numero universale dedicato delle forze di polizia, un allarme codificato contenente in sè gli elementi predeterminati di descrizione standard del caso e di esatta localizzazione sufficienti a consentire un intervento immediato.
Oggi invece, a parte tanti bei discorsi e i soliti rinnovati propositi d’impegno, di serio e di concreto non si vede nulla che possa dare speranza per il futuro, con l’aggravante di certi paradossi del discorso pubblico che pretendono le denunce lo stesso giorno (pena la loro patente non veridicità!) e che ci presentano, per esempio nell’ambito degli abusi che si consumano all’interno della Chiesa (anche contro le donne, adulte e bambine) una distanza inquietante tra le parole che si dicono e gli atti che si compiono.
Abusi sessuali del clero: “non si può accettare nessun silenzio,
nè l’occultamento”. Parole del Papa che però, al tempo stesso, difende
il ‘vescovo buono’ Rosario Gisana, insabbiatore seriale di denunce
Sette giorni fa, il 18 novembre scorso, è stata celebrata la terza ‘giornata nazionale di preghiera della Chiesa italiana per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili’: momento di recente istituzione, nel 2021, due anni dopo il Motu proprio di papa Francesco Vos estis lux mundi che cancella il segreto pontificio e obbliga clero e religiosi a denunciare le violenze di membri della Chiesa in danno di minori e persone fragili.
Per l’occasione Bergoglio nell’assemblea generale dei vescovi italiani ad Assisi pronuncia parole chiare e definitive (<<non si può accettare nessun silenzio, né occultamento>>) ma egli è lo stesso Pontefice che, come lettrici e lettori di quest’inchiesta ben sanno, avalla o determina tutti i fatti da noi ricostruiti e documentati.
Parole in un senso. Fatti in direzione opposta, dunque. <<Bisogna perseguire coloro che commettono tali crimini ancor più se in contesti ecclesiali>> dice il Papa: <<in particolare, è necessario perseguire l’accertamento della verità e il ristabilimento della giustizia all’interno della comunità ecclesiale anche in quei casi in cui determinati comportamenti non siano considerati reati per la legge dello Stato ma lo sono per la normativa canonica>>. Chapeau alle parole del Pontefice!. Quanto ai fatti siamo ancora a zero e quelli che stiamo raccontando stanno qui a dimostrarlo.
Termine di querela, la norma è chiara: decorre “dal momento della conoscenza completa, precisa e certa del fatto delittuoso”. Sentenza incomprensibile
Riprendiamo quindi il filo di alcuni di tali fatti, quelli relativi al processo di cui abbiamo riportato testimonianze documentali salienti del 2018, alle quali seguono la richiesta di rinvio a giudizio del vescovo mancato Giovanni Salonia il 7 luglio 2019 e la sentenza di non luogo a procedere il 28 febbraio 2020, depositata il 21 marzo successivo.
La decisione del tribunale di Roma di fatto scippa alla religiosa il diritto di giustizia, come se l’essere stata ingannata (violenza morale, su violenza fisica: crimine doppio) fosse colpa sua!
A pronunciarla è la giudice delle indagini preliminari, in questo caso nella funzione di giudice dell’udienza preliminare, Daniela Caramico D’Auria, salernitana, che oggi ha 52 anni ed un curriculum senza macchie. In forza all’ufficio Gip della capitale da maggio 2017, in precedenza giudice del tribunale di Spoleto e ancora prima pubblico ministero in un territorio di frontiera, la Calabria ionica devastata dalla ‘ndrangheta.
Caramico è infatti sostituto procuratore a Crotone negli anni in cui, dal 2008 al 2012, a capo della procura di Reggio Calabria c’è Giuseppe Pignatone il quale poi a marzo 2012 s’insedia al vertice della Procura di Roma che lascia il 9 maggio 2019, appena compiuti settant’anni, collocato a riposo dallo Stato italiano ma voglioso di rimanere attivo più che mai: il 3 ottobre dello stesso anno Bergoglio lo nomina presidente del tribunale di prima istanza del Vaticano.
Perchè il Papa lo scelga in un ruolo così importante e cruciale per il suo Stato sovrano e l’intera Chiesa non è dato sapere. Il pensiero di molti corre al momento in cui Pignatone, procuratore capo nella capitale, nel 2015 impone l’archiviazione delle nuove indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi che l’aggiunto Giancarlo Capaldo sta portando avanti seguendo un promettente filo nuovo di notizie e riscontri che emergono dai grovigli intrecciati che sottotraccia uniscono banda della Magliana, mafia, servizi segreti, politici, uomini del Vaticano. Uno scontro tra i due magistrati che il capo risolve togliendo l’inchiesta al suo vice e andando dritto verso l’archiviazione. In ogni caso, nell’ipotesi che non sia qui la risposta, per capire perchè il Papa ‘venuto dalla fine del mondo’ abbia bisogno dell’ex procuratore di Roma in pensione per mettere a posto la giustizia vaticana, vedremo le tappe salienti del cursus honorum di Pignatone.
Quattro mesi dopo che egli s’insedia a capo del tribunale Oltretevere, alla magistrata di Salerno tocca di pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio, per violenza sessuale aggravata, del frate cappuccino che tre anni prima il Papa ha nominato vescovo, salvo poi affrettarsi, prima dell’ordinazione, a spiegargli che deve rinunciare.
Della sua decisione abbiamo già rilevato l’inspiegabile anomalia alla luce di un dato che, ancorchè non esplicito nella formulazione dell’art. 609 septies del codice penale (<<il termine per la proposizione della querela è di dodici mesi>>: allora era di sei, rectius!), da sempre dottrina e giurisprudenza interpretano nel senso che tale termine debba necessariamente decorrere dalla conoscenza del fatto. Dispone in proposito, in generale sul diritto di querela, l’art. 124 del codice penale: <<Salvo che la legge disponga altrimenti, il diritto di querela non può essere esercitato, decorsi tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato>>. Nel nostro caso la legge dispone diversamente (allora sei mesi), ma soprattutto l’interpretazione di questa clausola di salvezza è univoca. Scrive Brocardi (ma nessun altro scienziato del diritto sostiene diversamente): <<La clausola di salvezza con cui si apre la norma si riferisce, ad esempio, ai casi di violenza sessuale di cui agli articoli 609 bis e 609 septies, reato per cui è previsto un termine di sei mesi per l’esercizio della querela. Indipendentemente dal termine previsto, questo deve poi essere computato secondo il calendario comune, ovvero – chiarisce la norma non lasciando alcuna ombra di dubbio – decorre dal momento della conoscenza completa e precisa, nonché certa del fatto delittuoso, a nulla rilevando il mero stato soggettivo di sospetto o di dubbio, determinato da ipotetici elementi>>. Più chiaro di così sarebbe possibile?
La sentenza della giudice appare incomprensibile perché se lei ritenesse di non potere escludere la conoscenza ex ante del reato da parte della querelante ciò, a maggior ragione, richiederebbe la necessità del processo e imporrebbe di non poterlo impedire. E comunque negli atti che la Gup si trova a valutare non figura un solo elemento che su questo punto metta in dubbio la versione della vittima ed anzi una pluralità di fonti di prova e di testimonianze, anche specifiche e molto qualificate, ne conferma la veridicità.
Riportiamo per mero dovere di completezza le notazioni che precedono, consapevoli dei già evidenziati requisiti di professionalità della magistrata in quel momento peraltro ben nota per alcuni importanti casi di cronaca dei quali, con Pignatone ancora a capo della procura della capitale, le capiti di occuparsi. A febbraio 2019 infatti è lei a firmare i provvedimenti riguardanti l’affaire delle carte riservate della Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla gestione delle scorte e il nuovo ordine di custodia cautelare nei confronti dell’ex funzionario dei servizi segreti, Francesco Loreto Sarcina, foggiano di 55 anni, con l’accusa di soppressione, falsificazione o sottrazione di atti o documenti concernenti la sicurezza dello Stato.
Due settimane prima, sempre a febbraio 2019, è ancora lei a firmare le ordinanze di custodia cautelare che, nell’inchiesta sulle sentenze in vendita, fanno scattare le manette ai polsi di diversi magistrati del Consiglio di Stato e del Consiglio di giustizia amministrativa, organo che in Sicilia ne svolge le funzioni: già l’anno prima a Scicli, in provincia di Ragusa, viene arrestato Giuseppe Mineo, ex giudice del Cga, nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta poi approdata e confluita con altre nella capitale, quello messinese che scopre il cosiddetto ‘sistema-Siracusa’ degli avvocati aretusei Giuseppe Calafiore e Piero Amara, grande corruttore e munifico erogatore di incarichi e tangenti. Un sistema ramificato e complesso svelato anche dai guai giudiziari dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, finito in disgrazia quando in un caso le sue scelte – esercitate dalla tolda di comando del Consiglio superiore della magistratura – di collaudato dispensatore di nomine, cariche e carriere dei magistrati, non piacciono a Pignatone: tra le tante singolarità di questa spy story c’è il famoso trojan inoculato sul telefono di Palamara che, non sappiamo se perchè difettoso o intelligente, smette di funzionare quando con lui c’è Pignatone.
La Procura di Roma, il Tribunale del Vaticano e la carriera di Giuseppe Pignatone: dall’archiviazione del dossier mafia-appalti caro a Falcone e Borsellino, a quella delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, ai rapporti con Montante, al trojan intelligente che fa saltare Palamara, al sistema sempre vivo di lobby&logge
Per chiudere la parentesi nella quale ci siamo spinti, qualche breve nota storica sul conto dell’attuale presidente del tribunale del Vaticano Giuseppe Pignatone può essere utile.
Il magistrato ‘sempreverde’ nasce a Caltanissetta dove comincia da pretore.
Cresce in carriera a Palermo fino alla salda amicizia con il più che chiacchierato procuratore Pietro Giammanco, ritenuto a contatto diretto con mafiosi di Bagheria anche per via di comuni interessi nella società Italcostruzioni, vicinissimo agli affari di ogni tipo di politici Dc di rito andreottiano come Salvo Lima, e pertanto nemico giurato di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ai quali, quando il 7 giugno 1990 il Csm – preferendolo proprio a Falcone – lo mette a capo della Procura, di fatto impedisce di continuare ad indagare sulla mafia.
Pignatone esce miracolosamente intonso dall’inciampo e dai misteri inquietanti relativi al fascicolo a lui co-assegnato proprio da Giammanco e contenente il famoso dossier mafia-appalti, secondo alcuni una delle chiavi per scardinare i misteri delle stragi del ’92: tale fascicolo stava molto a cuore a Falcone e, dopo la sua morte, a Borsellino il quale però non può occuparsene per volere di Giammanco che affida a Vittorio Aliquò la direzione delle indagini di mafia nella provincia di Palermo (a Borsellino quelle di Trapani ed Agrigento). La frettolosa richiesta d’archiviazione, ad opera di Guido Lo Forte altro pm vicino a Giammanco, fa infuriare Borsellino che la scopre a cose fatte il 14 luglio 1992, cinque giorni prima di saltare in aria. Su queste circostanze Pignatone, chiamato il 26 novembre 2021 a testimoniare a Caltanissetta nel processo sul depistaggio delle indagini relative alla strage di via D’Amelio, è incerto, confuso, omette, balbetta, non ricorda, viene smentito, si contraddice spesso.
Alle 7.15 della mattina di domenica 19 luglio 1992, poche ore prima della strage, Giammanco telefona a Borsellino per dirgli che dal giorno dopo potrà trattare le inchieste di mafia su Palermo. Cosa che purtroppo non potrà avvenire e chissà all’alba di quella domenica quanti siano, e chi, a saperlo. Certo è che se Giammanco, dopo i tanti no che gli ha sbattuto in faccia, intende finalmente accontentare Borsellino (il quale chiede e vuole la delega su Palermo in nome di Falcone), e ha il piacere di dirglielo subito, di domenica, conoscendo la sua ansia di combattere la mafia a Palermo, è proprio … sfortunato!
Nelle trame ricostruite in tale dossier, forse una sorta di scatola nera delle stragi, compare la Sirap, azienda amministrata dal padre Francesco Pignatone, potente politico Dc, deputato alla Camera dal 1948 al ’58, poi per 25 anni, dal ’68 al ’93, presidente e per altri cinque, fino al 1998, amministratore unico straordinario dell’Espi, Ente di sviluppo per la promozione industriale, il super-carrozzone regionale che ha in pancia centinaia d’imprese, come appunto la Sirap coinvolta per appalti da mille miliardi di lire nelle indagini di mafia affidate da Giammanco proprio a Pignatone, peraltro accusato direttamente quando il mafioso Angelo Siino poi collaboratore di giustizia, noto alle cronache come il ‘ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra’, racconta collusioni, soffiate e coperture che lo chiamano in causa insieme a Giammanco, a Guido lo Forte e Ignazio De Francisci: indagini poi archiviate per impossibilità di riscontri. E’ in quel contesto che viene in rilievo (l’inciampo appunto!) il personale interesse del magistrato rispetto al ruolo del padre a capo dell’Espi e del fratello Roberto Pignatone, avvocato dello Stato e consulente dell’assessorato ai lavori pubblici della Regione, proprietaria dell’Espi.
Dal 2000 al 2008 Pignatone è procuratore aggiunto a Palermo e, come abbiamo visto, dal 2008 al 20012 procuratore capo a Reggio Calabria, ufficio nel quale può avvalersi della collaborazione di un privato cittadino dalla biografia ingombrante e inquietante, Diego Di Simone Perricone, ex poliziotto divenuto in quegli anni capo della sicurezza di Confindustria, condannato l’8 luglio 2022 a cinque anni di reclusione dalla Corte d’Appello di Caltanissetta (6 anni e 4 mesi in primo grado) come complice dell’ex icona antimafia Antonio Calogero Montante e – proprio in quegli anni come accerta il processo – figura chiave nel suo sistema criminale.
Quindi, dal 2012 al 2019, il magistrato nisseno è al vertice della procura della capitale. Da quando nei primi anni duemila Montante, nato come il padre di Pignatone a San Cataldo – centro di 22 mila abitanti nel Nisseno – comincia a scalare Confindustria, il magistrato ne è sodale e assiduo frequentatore. Montante ha un eccellente rapporto con l’Eni, la multinazionale colosso di Stato di cui Roberto Pignatone, fratello del procuratore e tributarista, è consulente e ha relazioni strettissime con il grande corruttore Piero Amara che gli affida incarichi e addirittura lo cita come teste a propria difesa in giudizio. Amara appare a lungo ben coperto in diverse procure ma a Roma contro di lui invoca la linea dura il pm Stefano Rocco Fava le cui richieste però sono bocciate da Pignatone che gli toglie il fascicolo e il sostituto si ritrova anche sotto processo. Fava ha il ‘torto’ di rilevare che il procuratore non si sia astenuto da inchieste che coinvolgono il fratello Roberto (ancora lui, a Palermo come a Roma nei decenni!) e investono i rapporti di questi con Amara, al pari del procuratore aggiunto Paolo Ielo, a capo del pool reati finanziari, in sintonia con Pignatone e, come questi, avente un fratello, Domenico, avvocato, beneficiario di incarichi da parte di Amara. Per casuale coincidenza o chissà per quale filo degli accadimenti, Fava e Ielo, prima che scoppi il caso con la denuncia del primo al Csm contro Pignatone e contro lo stesso Ielo, sono i pubblici ministeri che accusano l’ex 007 Sarcina nella maxi inchiesta riguardante anche Amara e Calafiore i quali, collaborando, portano gli inquirenti a dipanare il filo del sistema e, così, il gip Daniela Caramico D’Auria ad emettere a febbraio 2019 i provvedimenti citati.
La campagna di travisamento della sentenza: lodato il presunto stupratore
non giudicato solo per il termine temporale della querela, denigrata la vittima.
Stampa subalterna e false dichiarazioni dell’arcivescovo Corrado Lorefice
Tornando ai fatti oggetto di quest’inchiesta, abbiamo visto i termini e la motivazione, unica, della sentenza del Gup di Roma: esclusivamente l’asserita tardività della querela. Ora vediamo l’uso che di questa decisione abnorme e incomprensibile fanno nella comunicazione pubblica l’imputato Giovanni Salonia e persone a lui vicine, anche molto influenti come l’arcivescovo Corrado Lorefice.
E’ una macchina della menzogna e della calunnia (contro la vittima, non contro il suo presunto stupratore) quella che si pone potentemente e prepotentemente in moto.
A mettere a confronto la verità giudiziaria – oggettiva, asettica e documentale (scolpita nella sentenza di non luogo a procedere) – con la narrazione che ne segue si rimane sconvolti. Una manipolazione orchestrata con sapienza, ispirata dalla regìa dell’intero affaire-Salonia e condotta alle estreme conseguenze attraverso l’infortunio complice e concorrente di quasi tutte le testate giornalistiche che riferiscono la notizia. Alcune la riportano correttamente sul piano formale (spiegando che si tratti di proscioglimento per querela tardiva) ma è incredibile come al tempo stesso non sentano il bisogno di collegare il dato documentale alle false dichiarazioni – che pure, nelle stesse ore e addirittura contestualmente, registrano – di quanti parlano di assoluzione, di falsità o infondatezza delle accuse, perfino di calunnia da parte della vittima contro l’accusato. Tra gli autori di tali dichiarazioni come già osservato c’è l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, ‘primate’ di Sicilia, ovvero capo della Chiesa nell’isola.
Da una parte l’evidenza, elementare e lampante, della sentenza emessa il 28 febbraio 2020 che non giudica l’imputato, nulla dice sulle accuse, respinge la richiesta della difesa di valutare non sussistenti i fatti e accoglie solo quella di considerare tardiva la querela. Dall’altra la clamorosa fake costruita dall’arcivescovo in persona il quale poi si scaglia sulla vittima accusandola, falsamente, di non avere detto il vero quando invece è lui a dichiarare il falso distorcendo a piacimento la sentenza sulla quale lungamente esterna.
Secondo Lorefice <<la decisione del giudice dimostra e dichiara ampiamente la fine “del calvario delle calunnie” sollevate contro padre Salonia sia nel febbraio 2017 sia a seguito dell’incontro avuto con il Santo Padre nella cattedrale di Palermo in occasione della visita del 15 settembre 2018>>. Nella fantasiosa ricostruzione dell’arcidiocesi <<l’improcedibilità dell’azione penale, sentenziata dal giudice a motivo della tardività con cui era stata presentata la querela, conferma l’atteggiamento calunnioso, pianificato ai danni di padre Salonia e contestualmente volto a delegittimare l’arcivescovo di Palermo e a colpire il santo padre mentre restituisce a fra’ Giovanni la piena innocenza e l’autorevolezza sacerdotale e professionale che da sempre gli viene riconosciuta>>. La stessa versione viene accreditata e diffusa attraverso il sito della Conferenza episcopale siciliana di cui Lorefice è vice presidente. Qualche tempo dopo però il testo scompare.
Delle parole, vergate su carta intestata dell’arcidiocesi, colpiscono la forza della mistificazione e la rozzezza dell’analisi, perfino violenta nei confronti di una religiosa la quale ha la sola ‘colpa’ di essere una vittima che sceglie di denunciare le violenze subìte. Altra questione è il livello probatorio raggiunto: conosciamo quello cui sono giunti i pubblici ministeri. Non sapremo mai invece quello che alla fine avrebbe acquisito il tribunale e assunto a base della sentenza di merito perché questa attività di giustizia viene impedita.
Siamo quindi dinanzi, semplicemente, ad una querela tardiva: peraltro tale, come abbiamo visto, nella più che contestabile decisione del giudice, senza alcuna evidenza di elementi a supporto di una sua debolezza di merito. Come la querela – tardiva – possa per ciò solo avere un falso contenuto è ‘mistero’ della fede smisurata di Lorefice nell’ausiliare che egli vuole fortemente ma al quale suo malgrado, e nonostante tutte le azioni esperite, deve rinunciare.
D’effetto quasi comico poi, produttivo però d’un riso tragico e amaro, le parole finali della nota: <<Nonostante tali infondate accuse (l’unico vaglio giudiziario di merito delle accuse è di piena fondatezza, vanificato però da improcedibilità, n.d.r), agevolate dalla diffusione di vere e proprie fake news da parte di alcuni organi di stampa, in questi due anni, insieme a padre Giovanni Salonia, la chiesa di Palermo, seppur nella dura prova, ha continuato a confidare nella magistratura ordinaria, attendendo nel silenzio e nella preghiera, il sopravvento di ‘ciò che è scritto nel libro della verità>>.
Dopo lo stop giudiziario scatta la reazione ritorsiva finale: soppressione della fraternità di Nazareth e condanna in sede canonica di Nello Dell’Agli
Il libro della verità giudiziale è quello che con assoluto rigore stiamo sfogliando, leggendo e condividendo con chi segue questa inchiesta. Poi c’è quello della verità fattuale, sempre possibile perché la realtà vive anche, anzi soprattutto e molto di più, fuori e lontano dalle aule giudiziarie da dove, per qualsivoglia ragione, dopo esservi entrata qualcuno – preposto a decidere – ad un certo punto, anche prima del tempo previsto può stabilire che debba uscirne. Ma, appunto, farla uscire – così come tutte le volte che non vi entri affatto – non significa cancellarla né stravolgerla nella sua insussistenza. Significa solo, nel nostro caso, che ad essa non possa conseguire una sentenza di condanna o d’assoluzione dell’imputato in un processo: prosciolto appunto il ‘nostro’ perché il processo non si deve fare.
Risulta inspiegabile e singolare come questa lettura dei fatti lanciata dall’arcidiocesi di Palermo possa convivere con i fatti stessi anche in quei resoconti giornalistici, pochi, che esplicitamente non travisano né falsano la notizia ma poi, quasi fingendo di non capire, nelle stesse righe di testo ne fanno coesistere l’assunto formalmente corretto con la sua stessa negazione imposta da virgolettati così falsi ma così referenziati.
Poi ci sono gli organi d’informazione, la maggior parte, che invece, recependo con fervida adesione la fake di Lorefice e di altri che si lanciano a sostegno di Salonia, sfuggono a tale ambiguità e stravolgono totalmente la sentenza dipingendola come l’assoluzione dell’imputato calunniato perché è stata accertata l’infondatezza delle accuse. Come i nostri lettori e le nostre lettrici ben sanno la verità è completamente diversa.
E così nei primi giorni di marzo 2020 quando si spegne l’eco di questa notizia e della narrazione mistificante che viaggia incontrastata in versione unificata sulle testate giornalistiche, nel web e sui social, il caso sembra archiviato.
Ma c’è ancora qualche conto da regolare, in misura direttamente proporzionale alla sete di vendetta del frate, noto psicoterapeuta che ha dovuto rinunciare alla mitra vescovile. E il terreno di questo regolamento è nel varco aperto il 18 agosto 2018 – esattamente un mese dopo le dichiarazioni del sacerdote Nello dell’Agli alla procura di Roma nel procedimento penale che vede Salonia indagato – dalla lettera inviata al segretario della congregazione per gli istituti di vita consacrata Josè Rodriguez Carballo dalle tre ex sodali della fraternità di Nazareth di Ragusa, l’associazione privata di fedeli di cui lo stesso Dell’Agli è responsabile. Da qui, così come dettagliatamente ricostruite nell’articolo precedente, le fasi e gli intrecci che il 19 giugno 2023 portano all’assurda sentenza dalla quale quest’inchiesta prende le mosse.
Due anni prima, il 30 luglio 2021, il vescovo della diocesi di Ragusa Giuseppe la Placa dispone la soppressione della fraternità di Nazareth chiudendo così il relativo dossier affidato dal potente frate francescano Carballo (abbiamo visto bene chi è) al sacerdote Salvatore Farì parimenti noto a lettrici e lettori di quest’inchiesta.
Per la cronaca La Placa in quella data, il 30 luglio 2021, è vescovo da appena due settimane, ordinato – e insediatosi per la prima volta a capo di una diocesi – il 16 luglio 2021. Bergoglio lo nomina l’8 maggio precedente, scegliendolo secondo prassi dentro una rosa di nomi. A consacrarlo il vescovo di Caltanissetta Mario Russotto, vittoriese, da vent’anni a capo della diocesi nissena, assurto alla dignità vescovile a 46 anni, nominato nel 2003 da Giovanni Paolo II e consacrato dal cardinale Salvatore De Giorgi: co-consacranti il cardinale Salvatore Pappalardo e l’allora nunzio apostolico in Italia Paolo Romeo. Nei 22 anni di sacerdozio che ne precedono l’ordinazione episcopale Russotto, docente tra l’altro di ebraico, greco e sacra scrittura, è attivo e quotato nella realtà iblea, negli istituti siciliani di insegnamento teologico, di formazione dei presbiteri e negli organismi della Conferenza episcopale. E’ uno dei vescovi nati nella diocesi di Ragusa, mentre, come abbiamo visto, Lorefice di Ispica, Gisana e Giurdanella di Modica – tuttora in carica a capo, rispettivamente, dell’arcidiocesi di Palermo e delle diocesi di Piazza Armerina e Mazara del Vallo – si formano in quella di Noto che comprende la storica città della Contea.
Per documentazione storica locale, dalla diocesi di Ragusa provengono, come Russotto, altri vescovi tra i quali Giambattista Di Quattro nunzio apostolico in Brasile ( in precedenza in India e Nepal, in Bolivia e a Panama); l’emerito, oggi novantunenne, Carmelo Ferraro di Santa Croce Camerina (a capo delle diocesi di Patti dal ’78 all’88 e poi, per vent’anni, di quella d’Agrigento, con titolo, dal 2000 al 2008, di arcivescovo metropolita); Carmelo Canzonieri deceduto a 86 anni nel 1993, per sei anni vescovo ausiliare di Messina e per venti a capo della diocesi di Caltagirone.
La Placa, da due anni vescovo di Ragusa, nativo di Resuttano – comune di appena 1700 abitanti del Nisseno, exclave della città metropolitana di Palermo – casualmente coetaneo di Corrado Lorefice, sacerdote un anno e mezzo prima di lui (vescovo invece sei anni dopo, entrambi nominati da Bergoglio) prima di giungere nel capoluogo ibleo opera nel Nisseno, a San Cataldo e a Caltanissetta assumendo vari incarichi tra i quali quello di docente di filosofia nel locale liceo classico ed espletando anche attività giornalistica: è iscritto all’albo, elenco pubblicisti.
Lorefice e la fuga dalle telecamere quando scoppia il caso dell’Opera pia Ruffini
Di Lorefice abbiamo avuto modo di registrare più volte gli interventi, le prese di posizione, gli atti compiuti nel corso degli otto anni di episcopato e di primate di Sicilia. Per completezza è utile ricordare, anche perché ancora viva nella memoria di molti, l’immagine imbarazzante dell’arcivescovo in fuga dalle telecamere e dai microfoni del reporter de Le Iene che invano gli chiede spiegazioni sulla gestione dell’Opera pia, da lui presieduta e gestita, intitolata al cardinale Ernesto Ruffini: quante cose da raccontare se potessimo aprire una parentesi sulla chiesa siciliana negli anni di Ruffini! Qui basta dire che per il potente porporato mantovano (trapiantato a Palermo con il nipote-allievo che istruisce in politica, Attilio Ruffini parlamentare Dc e poi ministro) in carica nell’arcidiocesi dal ’45 al 67, non è la mafia il nemico della Sicilia; nemici sono invece Danilo Dolci che educa alla democrazia e Giuseppe Tomasi di Lampedusa che con il suo Gattopardo diffama l’isola e i suoi abitanti.
Quella dell’Opera pia ‘Ruffini è la vicenda, che affiora sulla stampa a febbraio 2018, degli stipendi non pagati ai dipendenti e di 42 licenziamenti.
La notizia viene in sintesi riportata così. L’ente gestisce centri per bambini, anziani e disabili. Nonostante incassi centinaia di migliaia di euro di finanziamenti pubblici, ad un certo punto annuncia di essere sull’orlo del fallimento, smette di pagare i dipendenti e poi ne licenzia 42. In effetti, dopo le denunce e l’appello pubblico di lavoratrici e lavoratori interessati, Lorefice come arcivescovo dà una parte dei soldi dovuti ma come presidente dell’Opera Pia se li riprende. Il caso esplode con maggiore clamore a ottobre 2018 quando Filippo Roma de Le Iene va a Palermo, indaga, fa domande, scopre e segnala presunte irregolarità, intervista il presidente della Regione, cerca di parlare con Lorefice ma viene bloccato più volte. E all’ennesimo tentativo in aeroporto l’arcivescovo letteralmente fugge di corsa: una scelta che, evidentemente, egli reputa più giusta o conveniente di qualunque risposta che alle domande possa dare (qui il servizio Mediaset del 7 ottobre 2018, qui un articolo di Palermotoday.it che il giorno dopo rilancia il video).
Due anni dopo ci sarà un sequel, con gli inviati de Le Iene che tornano alla carica cercando invano di incontrare l’arcivescovo che pure nei proclami pubblici appare sempre così deciso nello sfidare il potere e mostrarsi schierato in favore degli ultimi.
Il caso torna d’attualità il 2 ottobre 2020 perché – spiegano i lavoratori – a fronte di una sentenza la quale condanna l’Opcer (Opera pia cardinale Ernesto Ruffini) disponendo il loro reintegro e il risarcimento economico del danno da loro subìto, il consiglio d’amministrazione dell’ente presieduto dall’arcivescovo Lorefice non paga e non reintegra nessuno, ancora un mese e mezzo dopo la decisione del tribunale di Palermo del 20 agosto, immediatamente esecutiva (qui un articolo, con il video, pubblicato da Blogsicilia.it il 2 ottobre 2020).
Dunque una sentenza del tribunale di Palermo condanna l’Opera pia Ruffini a pagare diciotto mensilità ai dipendenti, dichiara illegittimi i licenziamenti (perché non risulta vero che l’attività sia cessata a differenza di quanto rappresentato dall’ente), dispone la reintegrazione di lavoratrici e lavoratori ma l’ente disattende totalmente il provvedimento, mentre il suo legale rappresentante, Lorefice, dinanzi ad una troupe giornalistica fugge a gambe levate! In effetti giorni dopo l’arcivescovo in occasione di un evento pubblico parla dell’argomento e alla fine s’intrattiene anche con alcuni giornalisti presenti. Ma nessuno gli chiede conto di quei comportamenti accertati dal tribunale nè del disattendimento della sentenza esecutiva, ed egli può così affermare di essersi sottratto ad un’aggressione (le domande nel merito) e di non avere alcuna difficoltà a parlare con ‘veri’ giornalisti che per lui sono coloro che non chiedono spiegazioni e riportano, magari in un empatico afflato d’ammirazione, senza quindi avere nulla mai da ridire, le sue dichiarazioni di ‘vittima d’aggressione’.
Carballo, Lorefice, Gisana, Salonia, Farì e gli altri. Sopra di loro il Papa
che dispensa solidarietà pubbliche ma alla vittima solo scuse private
Tornando al tema centrale e ai fatti principali di quest’inchiesta, ora qualche notizia e considerazione ulteriori sugli elementi essenziali delle vicende ricostruite e, alla fine, un focus conclusivo anche per inquadrare meglio i risultati della ricerca e definirne il senso, le indicazioni, la lezione che se ne possa trarre.
Lorefice, Carballo, Gisana, Salonia, Farì, gli altri: tutti nomi che in quest’inchiesta abbiamo imparato a conoscere, ciascuno in relazione agli atti compiuti e ai fatti che li coinvolgono.
Ovviamente sopra tutti, con il suo potere assoluto, c’è il Papa. Il quale, durante la nostra inchiesta, due giorni dopo la pubblicazione della quarta puntata, il 6 novembre scorso interviene per ‘assolvere urbe et orbi’ (così abbiamo scritto nell’articolo pubblicato il 6 novembre, leggibile qui) il vescovo Rosario Gisana, figura centrale nell’affaire-Salonia in quanto capo dei giudici ecclesiastici i quali, imponendo il tappo della menzogna sulla bottiglia contenente il messaggio della prima denuncia che avrebbe richiesto l’ onestà dell’accertamento e il dovere della presa in carico dei fatti, sequestrano la verità, dettando la linea del falso e indirizzando ogni sviluppo successivo, con piena corresponsabilità delle figure e degli altri organi coinvolti fino allo squadrismo finale, come abbiamo visto in ogni passaggio, di una vendetta contro testimoni di verità confezionata in forma di verdetto inappellabile sancito da un tribunale ad hoc.
Il Papa è colui che ancora oggi ‘assolve’ pubblicamente Gisana mentre nulla dice in pubblico delle vittime che, al contrario del vescovo, hanno detto la verità. Appena una telefonata in privato per chiedere perdono a suor Teresa, mentre pubblicamente da Bergoglio arrivano soltanto, in ordine temporale: le parole pronunciate a Genova il 27 maggio 2017 che suonano di chiara difesa del mendace Salonia; la foto-opportunity allo stesso concessa il 15 settembre 2018; la visita premurosa e le attestazioni di vicinanza a Lorefice e Gisana lo stesso giorno; in ultimo l’ulteriore recentissima difesa d’ufficio di Gisana, insabbiatore seriale ‘reo confesso’ di tante denunce di violenze commesse nella sua diocesi di Piazza Armerina da sacerdoti in danno di bambine e ragazzi minori.
In relazione al concreto intreccio di certi interessi ed affinità elettive incontrato nel nostro cammino, Gisana è stato allievo di Salonia in qualità di uditore nella scuola di psicoterapia Gestalt diretta dal frate cappuccino il quale, come abbiamo visto, fa finta di non conoscerlo e addirittura di non saperne il nome quando ai pubblici ministeri di Roma riferisce delle indagini della commissione ecclesiastica presieduta da Gisana dinanzi alla quale si è pure presentato in audizione.
Di Salonia abbiamo casualmente rilevato, perché inscindibilmente connesse ai fatti cruciali, talune frequentazioni e rapporti con diverse ‘sorelle’ religiose uno dei quali, con la nostra suor Teresa, ha prodotto il processo per violenza sessuale aggravata, un altro è stato, con suor Lucia, una vera e propria relazione sessuale ammessa dal frate cappuccino quanto meno nella durata di due-tre anni, dal 1978 (lui sacerdote di 31 anni, lei suora di 27) al 1981, mentre in effetti è stata molto più lunga, in corso fino ai primi anni duemila quando Salonia è ministro provinciale dell’ordine francescano.
Per Lorefice, suo paziente, Salonia è ‘campione d’umanità’. La rete degli interessi
e la claque a sostegno del vescovo mancato. Gisana e la donna a lui vicina
Lungo la filiera di nomine, incarichi e collaborazioni sulla quale si snoda la rete di potere del ‘vescovo mancato’ – a maglie incrociate rispetto a ruoli e figure ben attive a sostegno della falsa narrazione che, anche in sede di giustizia, abbiamo dovuto rilevare – ci siamo imbattuti nello Studio San Paolo di Catania, Centro di studi teologici in Sicilia, del quale Gisana è allievo nel biennio di filosofia e poi docente con vari incarichi di responsabilità: dal 1988 animatore degli alunni del seminario maggiore residenti a Catania e docente invitato di scienze patristiche; dal 2010 docente incaricato di esegesi biblica e patristica; dal 2012 e fino alla nomina a vescovo nel 2014, vicepreside e docente di sacra scrittura.
In anni della sua lunga e assidua presenza al San Paolo di Catania molti ricordano una donna sempre a lui vicina, nella struttura residenziale che dal lunedì al venerdì ospita i seminaristi di Noto pendolari per studio. Una donna senza alcun ruolo apparente tranne quello d’essergli vicina, analogamente e stabilmente presente poi anche nella curia di piazza Armerina quando Gisana vi s’insedia come vescovo. Situazioni queste secondarie nella nostra inchiesta ma utili più avanti nel bilancio della lezione che i fatti ci consegnano.
A proposito di frequentazioni, scambi, relazioni ed influenze, abbiamo visto con quanta forza Lorefice si spenda e si batta per il ‘suo’ vescovo ausiliare Salonia, bruciando con lui l’unica possibilità che il Papa gli conceda per dotarsi di questa figura di supporto (che infatti l’arcidiocesi di Palermo, tranne che appunto con Lorefice, nella storia ha sempre avuto) al punto da fare tutte le pressioni necessarie per ottenere, a tutela di Salonia e a difesa della sua falsa versione dei fatti, la commissione-Gisana e poi gli altri atti che, con la soppressione della fraternità di Nazareth e la condanna canonica di Nello Dell’Agli, chiudono il cerchio.
Lorefice avrà tanti buoni motivi per tenere in così alta considerazione Salonia, compreso l’esserne o l’esserne stato paziente in psicoterapia, almeno secondo quanto riferiscono sacerdoti con l’intento di sottolinearne la sincera gratitudine. Ma devono esserci altre spiegazioni però perché, se no, rimane del tutto incomprensibile come un sincero e profondo apprezzamento professionale possa spingersi fino al falso su questioni essenziali, di principio anche per la Chiesa in fatto e in diritto, e anche oltre quando diventa dileggio e denigrazione di una suora limpida ed esemplare, nella nostra inchiesta suor Teresa, vittima – secondo querela – di violenza sessuale da parte del bravo psicoterapeuta: una religiosa che a seguito della sua coraggiosa denuncia viene calunniata e irrisa con nuova violenza dall’arcivescovo, paziente forse del presunto stupratore che, anche dopo la denuncia per violenza sessuale, definisce ‘campione d’umanità’.
La difesa d’ufficio di ‘fra Gaetano, successore di Salonia al vertice provinciale
dei frati Cappuccini, e le pressioni sull’ex suora-amante perchè ritratti la verità
Oltre a quella di Lorefice, e di una forte comunità di esperienze e d’interessi molto attiva sui social, la difesa di Salonia conta anche sul ministro provinciale dei frati cappuccini Gaetano La Speme che abbiamo già incontrato nella misteriosa richiesta di rettifica in apparenza indirizzata a ilfattoquotidiano.it dopo la pubblicazione dell’articolo del vaticanista Francesco Antonio Grana sullo stop papale della nomina di Salonia a vescovo.
Ma non si tratta solo di difesa, più o meno d’ufficio, del proprio confratello, bensì di qualcosa di molto più invasivo perché ‘fra Gaetano più volte telefona all’ex suora, a lungo amante di Salonia, per indurla a ritrattare il contenuto della lettera inviata al Papa il giorno dopo la nomina di Salonia a vescovo. Abbiamo visto come l’ex religiosa, in quest’inchiesta suor Lucia, abbia detto la pura verità e come lo abbia fatto – solo per il bene della Chiesa che mette in guardia dall’ordinare un vescovo di quel tipo – trent’anni dopo avere lasciato l’abito monacale e quindici anni dopo avere posto fine a quella lunga storia con il sacerdote la quale per lei era storia d’amore: l’unica relazione con un uomo nell’intera sua vita fino ad oggi, dichiara ai pubblici ministeri. Una relazione che la induce, per proprio dovere di coscienza, a lasciare la vita religiosa, scelta che altrimenti non avrebbe mai compiuto.
A Salonia, e a La Speme che lavora per lui, va male perché l’ex suora non recede dal dovere di far conoscere al Pontefice la verità e non ritratta nulla ma certo non possono mancare adeguati segni di gratitudine verso il frate, suo successore nella carica di ministro provinciale dell’ordine, che si batte per lui con ogni mezzo, che sia il telefono per tentare di ‘mettere a posto’ le cose o la pagina fb denominata ‘sulla vicenda di padre Salonia’. Con questa pagina La Speme costruisce, anche con l’apporto inconsapevole di tante persone in buona fede, quella falsa narrazione che per tre anni viaggia potente sui media e nei social, dalla ‘rinuncia’ alla nomina episcopale in aprile 2017, alla sentenza penale di non luogo a procedere del 28 febbraio 2020.
Non sappiamo se gratitudine ci sia stata, né se suo segno possa essere considerata la nomina di La Speme a direttore dei corsi di Pastoral counselling della Gestalt Terapy Kairos, gli istituti diretti da Salonia, ma sappiamo per certo che essa è dovuta, nonostante i risultati: del resto cosa potrebbe fare di più il capo dei frati cappuccini di un terzo della Sicilia per falsare la verità? Dopo le telefonate pesanti e invasive alla testimone, una maggiore efficacia richiederebbe solo … vie di fatto! Nel nostro caso per fortuna la verità regge, grazie solo alla serietà, alla rettitudine, alla forza morale di un’ex suora.
Superfluo qui aggiungere che La Speme non ci pensa proprio a cercare la verità sul conto di Salonia, suo predecessore e potente membro della comunità da lui governata. Gli basta la menzogna del frate che egli prende per buona, cavalcandola e spacciandola per verità, al punto da scrivere lettere di pubblica solidarietà. Tutto ciò mentre prova in privato a piegare, ai propri interessi e a quelli di Salonia, la verità della religiosa: oggettivamente vera, in seguito ammessa perfino dallo stesso Salonia.
Tribunale ad hoc, sentenza inappellabile con firma del Papa e l’espediente
di Carballo per averla: “rivalità di colleghi psicoterapeuti, Dell’Agli e Becciu”.
Vero il contrario: se Salonia diventasse vescovo dovrebbe lasciare la professione
Uno degli aspetti più eclatanti della prova di forza del potere vaticano e del conseguente sopruso, giuridico e morale, compiuto contro la verità e in difesa della menzogna pro Salonia, è quella sorta di combinato disposto costituito dal tribunale ad hoc allestito per giudicare e punire il testimone Dell’Agli e dal sigillo papale d’inappellabilità della relativa sentenza. Espedienti caldeggiati dal potente Carballo (abbiamo visto le sue gesta): soprattutto e con insistenza quest’ultimo, recepito e deciso dal Papa con l’effetto di impedire il riesame di una sentenza ingiusta e assurda. Per indurre a tanto, spingere e convincere il Pontefice, l’amico Carballo utilizza l’argomento che segue e al Papa la racconta così.
Salonia è vittima di un complotto orchestrato da suoi colleghi mossi da invidia e interessi di competizione professionale. Costoro sarebbero gli psicoterapeuti Nello Dell’Agli e Mario Becciu, fratello peraltro del cardinale Giovanni Angelo Becciu, al centro di un clamosoro caso internazionale e di un’inchiesta giudiziaria che andrebbero analizzati in ogni loro piega ma ciò richiederebbe apposita trattazione. Qui per la cronaca rileviamo solo che volge alla conclusione il processo intentato dal Tribunale di prima istanza del Vaticano, su citazione, il 3 luglio 2021, del presidente Giuseppe Pignatone. Dal 24 settembre 2020 il porporato-imputato non ha più alcun incarico nella Curia romana di cui, cardinale dal 2018, era prefetto del dicastero delle cause dei Santi.
Tornando all’argomento di Carballo, sempre in sintonia e in costante contatto con Lorefice nell’intera strategia da noi ricostruita come documentano gli atti dei procedimenti, una considerazione elementare s’impone. A scatenare contro il vescovo mancato, subito dopo la sua nomina, i colleghi psicoterapeuti dell’Agli, e addirittura Mario Becciu, secondo Carballo sarebbe la loro rivalità professionale nei confrornti di Salonia e quindi l’interesse economico ad avere più clienti. Ma se così fosse, proprio la nomina a vescovo, una volta ordinato e quindi insediatosi, avrebbe impedito a Salonia di esercitare l’attività retribuita di psicoterapia e di pastoral counselling.
Quindi se fosse vero quanto da Carballo rappresentato al Papa (il movente della competizione professionale e dell’interesse economico) i rivali di Salonia avrebbero tutti i motivi per festeggiare la sua nomina episcopale e non per boicottarla. In proposito appare superfluo richiamare vicende già riferite, in quanto lettrici e lettori di quest’inchiesta conoscono il fitto intreccio di fatti e situazioni che determinano gli eventi, compreso il filo delle ritorsioni contro Dell’Agli: nel 2015 dopo la sua rottura con Salonia con il quale si trova in dissenso perchè vuole la vita della fratenità di Nazareth separata dagli affari professionali; nel 2018 dopo le dichiarazioni rese alla procura di Roma nel procedimento che vede Salonia indagato per violenza sessuale. Peraltro chi mostrerebbe acredine compulsiva e incontrollabile, a leggere alcuni atti che rimandano a Carballo, contro Nello Dell’Agli e contro Mario Becciu sarebbe proprio Lorefice il quale con il potente segretario del dicastero per gli istituti di vita consacrata concerta passo passo la strategia.
Il Papa, il clero e le donne. L’abbandono di Lucetta Scaraffia dopo le denunce di violenze ai danni di alcune religiose e una dichiarazione precisa: “sono certa che il cardinale Becciu ha pagato per avere osato aprire la questione Salonia”
Per chiudere la parentesi dell’accenno al caso-Becciu, da rilevare le parole di Lucetta Scaraffia, scrittrice e opinionista de L’Osservatore romano fino a marzo 2019, quando lascia la direzione del mensile della testata ‘Donna Chiesa Mondo’ con un forte gesto di critica e di denuncia. Scrive Scaraffia il 26 settembre 2020 su Il Sismografo (qui) riferendosi, dopo l’analisi di una lunga sequenza di scandali e inchieste, al cardinale Giovanni Angelo Becciu: <<personalmente sono certa che ha pagato anche per avere osato aprire la questione del cappuccino Salonia, che stava per diventare vescovo, accusato di abuso sessuale su alcune religiose. Delitto per il quale il frate non è stato condannato solo perché erano trascorsi i termini stabiliti per la denuncia. Come si vede il coraggio e la sincerità non pagano nella Chiesa, ma forse agli occhi dei fedeli sono virtù che ancora vengono apprezzate>>.
Per la cronaca, un anno e mezzo prima, il 27 marzo 2019, Lucetta Scaraffia tronca la collaborazione con l’Osservatore Romano e lascia la direzione del mensile femminile, segnalando un clima di sopraffazione soprattutto dopo la denuncia dello scandalo degli abusi sessuali sulle suore. Dice a Repubblica: <<Me ne vado insieme a tutta la redazione dell’inserto femminile. Sul quotidiano siamo scomparse e ci hanno delegittimato. Evidentemente la nostra linea dà fastidio. Per questo ci facciamo da parte>>.
Con lei si dimette tutto lo staff del mensile nato sette anni prima con papa Ratzinger. La clamorosa rottura appena tre mesi dopo l’inizio della direzione, in capo all’Osservatore Romano, di Andrea Monda che Bergoglio chiama in sostituzione del predecessore Giovanni Maria Vian. In una lettera al Pontefice, Scaraffia spiega ulteriormente: <<caro Papa, si conclude, o meglio si spezza, un’esperienza nuova ed eccezionale per la Chiesa: per la prima volta un gruppo di donne, che si sono organizzate autonomamente e che hanno votato al loro interno le cariche e l’ingresso di nuove redattrici, ha potuto lavorare nel cuore del Vaticano e della comunicazione della Santa Sede, con intelligenza e cuore liberi, grazie al consenso e all’appoggio di due papi. Ma adesso ci sembra che un’iniziativa vitale sia ridotta al silenzio e che si ritorni all’antiquato e arido costume della scelta dall’alto, sotto il diretto controllo maschile, di donne ritenute affidabili. Si scarta in questo modo un lavoro positivo e un inizio di rapporto franco e sincero, un’occasione di parresia, per tornare all’autoreferenzialità clericale. Proprio quando questa strada viene denunciata da Lei come infeconda».
Il gesto clamoroso, un trauma nell’esperienza del mensile femminile, giunge a fine marzo 2019 dopo che l’inserto denuncia lo scandalo degli abusi sessuali e di potere sulle suore commessi da preti e vescovi. Una piaga riconosciuta dallo stesso Pontefice, a febbraio, sul volo di ritorno dagli Emirati Arabi Uniti, ma …. E qui viene in mente la misteriosa dicotomia tra parole e atti che, lungo i fatti documentati, non ci lascia fin dall’inizio di quest’inchiesta.
Marzo 2019 è anche un mese d’intensa attività investigativa della procura di Roma sul dossier-Salonia, tant’è che il 7 luglio successivo viene depositata la richiesta di rinvio a giudizio. E Scaraffia sul fenomeno delle violenze del clero, soprattutto contro minori e contro donne religiose, impegna il suo prestigio e l’intera redazione da lei formata.
Il Tribunale ad hoc formato a Napoli: ecco chi ne fa parte. La firma papale
che blinda la sentenza contrasta con le parole dello stesso Pontefice
Riprendendo il filo conduttore della parte finale di quest’inchiesta, il tribunale ad hoc viene formato reclutando i giudici a Napoli. E’ una sorta di tribunale partenopeo interdiocesano quello investito della missione sul duplice binario della doppia ‘lezione’ a Dell’Agli, condannato alla massima pena canonica dal tribunale ad hoc e all’ulteriore punizione della soppressione della fraternità di Nazareth attraverso i servigi di Salvatore Farì, parroco a Napoli e, come abbiamo visto, in ottimi rapporti con Corrado Lorefice.
Il collegio apposito che confeziona l’incredibile sentenza è presieduto da Pietro De Felice, presbitero di Casagiove, piccolo centro del Casertano, morto all’età di 65 anni a Caserta il 10 aprile 2021, non molto tempo dopo la sentenza. De Felice, cancelliere della diocesi di Caserta e giudice ecclesiastico in vari tribunali d’appello (sì, d’appello, che operano normalmente tranne casi eccezionali in cui certe sentenze non s’abbiano a riesaminare) è stato anche commendatore dell’ordine del Santo Sepolcro che lettrici e lettori di quest’inchiesta conoscono bene per quella strana accoglienza nelle proprie file di non pochi mafiosi in posizioni di vertice o d’influenza.
Del collegio fa parte Erasmo Napolitano, presbitero della diocesi di Nola, presidente dell’associazione canonistica italiana, vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico campano. Dopo la sentenza – il 25 marzo 2021, con effetto dal primo giugno successivo – acquisisce l’ulteriore incarico di vertice del tribunale interdiocesano di Benevento. Napolitano è canonista di buona fama capace quindi di dare parvenza di credibilità al collegio in qualità di istruttore e ponente.
Completa l’organismo giudicante Carmine Spada che, pochi mesi dopo la sentenza, il 5 luglio 2021 è nominato giudice del tribunale ecclesiastico metropolitano e d’appello di Salerno.
Promotore di giustizia invece è Pasquale Silvestri, presbitero di Napoli, cappellano di sua Santità, all’epoca giudice del tribunale regionale, ad aprile 2023 nominato anche nel tribunale ecclesiale metropolitano beneventano di seconda istanza.
Il divieto papale d’appello è un atto eccezionale, abnorme, straordinario, peraltro in contrasto con le parole stesse pronunciate dagli ultimi tre pontefici, in continuità.
In proposito abbiamo già conosciuto il pensiero del ‘condannato’ appunto senza appello, Dell’Agli: <<È terribile pensare che proprio nella chiesa, il luogo dell’amore, della giustizia e del servizio dell’uomo, si arrivi a negare il diritto fondamentale all’appello>>.
Del resto già 34 anni fa Giovanni Paolo II ammonisce così la Rota romana: <<Ius defensionis semper integrum maneat>> (Il diritto della difesa rimanga sempre integro).
Inoltre è nella storia l’omelia in cui Benedetto XVI chiarisce che la chiesa non è una monarchia assoluta, che il rispetto degli elementi essenziali del giusto processo rientra tra gli istituti che la recta ratio impone a ogni ordinamento giuridico, e che il vescovo di Roma non può operare scevro da vincoli giuridici di sistema. In particolare, in relazione al processo riguardante Paolo Gabriele, l’aiutante di camera della famiglia pontificia, sorpreso a trafugare documenti riservati, Ratzinger osserva: «per me era importante che proprio in Vaticano fosse garantita l’indipendenza della giustizia, che il monarca non dicesse “adesso me ne occupo io”. In uno stato di diritto la giustizia deve fare il suo corso. Il monarca poi può concedere la grazia. Ma questa è un’altra storia».
Anche papa Francesco a parole (ai religiosi in Sud Sudan il 4 febbraio 2023) è sulla stessa linea: «Se vogliamo essere pastori che intercedono, non possiamo restare neutrali dinanzi al dolore provocato dalle ingiustizie e dalle violenze perché, là dove una donna o un uomo vengono feriti nei loro diritti fondamentali, Cristo è offeso». E ancora, il 18 febbraio 2023 nel discorso ai partecipanti al corso di formazione per gli operatori del diritto, promosso dal tribunale della Rota romana: «Il vostro lavoro si occupa delle norme, dei processi e delle sanzioni, ma – ammonisce papa Francesco – non deve mai perdere di vista i diritti … Questi diritti non sono pretese arbitrarie, bensì beni oggettivi, finalizzati alla salvezza, da riconoscere e tutelare … Come cultori del diritto avete una responsabilità particolare: far risplendere la verità della giustizia».
L’ultima mossa di Carballo: una lettera di scuse a Salonia per evitare la condanna, Ma Dell’Agli rifiuta: il servizio alla verità non può essere qualcosa di cui scusarsi
A maggior ragione risulta strano il divieto d’appello disposto per l’occasione, spiegabile solo con gli efficaci uffici di Carballo del quale peraltro c’è da svelare un ultimo atto, compiuto prima che l’amico Papa lo rispedisca in Spagna dopo un decennio di scandali e operazioni spericolate nel palazzo delle congregazioni. Quando la sentenza che condanna Dell’Agli è scritta da tempo ma ancora segreta o lasciata in bianco (il presidente del collegio che la emette muore, come abbiamo visto, il 10 aprile 2021) Carballo fa pressioni perché il condannato, o condannando, scriva una lettera di scuse a Salonia. Dell’Agli si rifiuta: gli viene chiesto di rinnegare la verità che la sua coscienza lo ha indotto ad affermare in giudizio e di inchinarsi alla menzogna che ispira l’intera macchinazione ordita nei piani alti del Vaticano. La richiesta di una lettera di scuse che suonerebbe come una ritrattazione, 390 anni dopo l’abiura imposta a Galileo Galilei e 423 anni dopo quella rifiutata da Giordano Bruno, non trova l’assenso di Dell’Agli che non cede. Perciò, prima che Carballo vada via e debba lasciare il dossier che tanto gli sta a cuore (il siluramento nell’aria da tempo è annunciato pubblicamente da papa Francesco il 14 settembre 2023) porta a termine la missione: il 19 giugno 2023 ecco la condanna alla pena dell’amissio status clericalis, senz’appello come abbiamo visto, ma anche senza motivazione, senza preavviso monitorio, nonostante la lunga gestazione.
Infatti a settembre 2022 il dicastero per il clero chiede a Dell’Agli se abbia intenzione di sottomettersi alla sentenza. L’imputato risponde per iscritto di avere bisogno di un periodo di discernimento trattandosi <<di sentenza iniqua, immotivata e inappellabile e perché, sottomettendosi, si renderebbe complice di un’ingiustizia>> anche nei confronti delle persone che hanno testimoniato nei procedimenti riguardanti Salonia. Quindi chiede tempo fino al 15 agosto 2023. Il dicastero non rifiuta e, tacendo, sembra acconsentire. Ma il seguito è quello già descritto: Carballo, che è a capo del dicastero per gli istituti di vita consacrata, posizione da cui fa decretare la chiusura della fraternità di Nazareth, esplora una posta alternativa, evidentemente a lui e danti causa sufficiente: una lettera di scuse di Dell’Agli a Salonia. E quando questa è rifiutata con decisione, arriva, senza preavviso (Carballo ha fretta sapendo di dovere andar via), la dimissione del sacerdote-testimone dallo stato clericale: la data è il 19 giugno 2023 ma la notifica e la comunicazione del vescovo al clero diocesano seguono un mese dopo. E’ in quel momento che, con la nota alla stampa di Dell’Agli del 16 luglio 2023, il caso diventa pubblico e fornisce materiale a quest’inchiesta.
A proposito della lettera di scuse invano chiesta a Dell’Agli come atto di sottomissione all’intrigo e alla menzogna, una notazione aiuta a capire quale sia il livello di serietà, di diligenza, di applicazione giuridica negli atti che, letti in questa ottica, sembrano soperchierie e imbrogli d’un manipolo di manigoldi.
Nell’intimazione a Dell’Agli, perché possa evitare la condanna, la richiesta, oltre alle scuse a Salonia, comprende anche una lettera di scuse ad una donna, di cui viene indicato il nome, definita sodale della fraternità. Ma Dell’Agli la conosce appena, lei non ha mai fatto parte della fraternità e sul suo conto risulta solo che abbia espresso per iscritto una lamentela nei confronti del vescovo Paolo Urso per avere egli permesso una celebrazione in cattedrale presieduta dall’allora vicario Salvatore Puglisi per la professione temporanea dei voti di alcuni membri della fraternità. Una lettera di scuse da parte di Dell’Agli per un atto compiuto non da lui ma dal vescovo, ‘colpevole’ però di riguardo – questo il messaggio – verso la fraternità di Nazareth.
A rileggere i capi d’accusa e l’incredibile sentenza – gli uni e l’altra ampiamente illustrati all’inizio – una considerazione si impone. A Dell’Agli, anche nelle valutazioni informali successive, viene contestato l’atto di disobbedienza, non essendosi sottomesso alla sentenza. In verità egli chiede un periodo di discernimento e, di fronte al silenzio come risposta, crede di ottenerlo. Ma due mesi prima che arrivi l’ora delle scelte, quando Carballo ha fretta, giunge la notifica della condanna.
Non v’è dubbio che spesso nella società laica la disobbedienza al potere – non di rado bieco, ottuso, debordante e quindi ingiusto – sia preciso dovere civile. Ma anche nell’ottica interna della Chiesa e delle sue regole a nessuno sfugge che in questo caso la disobbedienza al potere e all’istituzione sia obbedienza alla verità e alla coscienza: rifiuto di una palese ingiustizia malandrina che umilia e colpisce quanti nella Chiesa stessa agiscono per la verità e nel contempo premia coloro che si nutrono della menzogna. Del resto il frate francescano Salonia, come l’unico Papa finora che porti il nome del santo d’Assisi, sa ciò che San Francesco scrive otto secoli fa: «se il superiore ti comanda qualcosa che è contro la tua coscienza, non obbedire, ma rimani in comunione».
Una lobby, basata sull’orientamento sessuale dei suoi membri, alla base
dei soprusi del potere in Vaticano. Lobby d’interessi: non per ideale affermazione
di un’identità di genere, ma per l’ordinario appagamento di uomini di Chiesa
Ecco dunque giunti al focus finale.
L’intreccio dei fatti e la loro ricostruzione documentata ci pongono di fronte ad una mostruosa serie di atti di palese ingiustizia e di asservimento di funzioni, enti e istituzioni a interessi privati, a dinamiche di potere, in alcuni casi secondo logiche corporative, tribali e di vere e proprie lobbies all’interno del Vaticano e della sua burocrazia decidente la quale come è noto non opera solo dentro gli angusti confini di questo minuscolo Stato ma ne estende gli effetti, almeno nell’ambito della giurisdizione canonica, su una buona fetta dell’umanità: quel miliardo e trecento milioni di fedeli che nel pianeta ne rappresentano un sesto.
Spesso il filo di questi intrecci fa emergere i rapporti di scambio all’interno di talune di queste lobbies. Il cemento degli interessi che le tiene in vita potrebbe in astratto essere ampio e non si può escludere che la casistica reale possa contemplare varianti nascoste o poco visibili all’esterno. Ma un dato è certo: la presenza forte di lobbies basate sull’orientamento sessuale degli appartenenti. Utilizziamo il termine ‘orientamento sessuale’ in modo sommario, grossolano potremmo dire, senza andare a distinguere tra le varie sfumature comprese – solo per fare un esempio scientifico tra i più noti – nei sette livelli della scala di Kinsey, ma avendo presenti unicamente le macrocategorie di tale orientamento.
Lungi da pensieri o retropensieri discriminatori tra ogni orientamento possibile, ognuno dei quali ha la stessa dignità e merita lo stesso rispetto degli altri, qui ci troviamo solo a dovere prendere atto che talune di queste lobbies, certamente la più forte in Vaticano, sono fondate sul cemento di un comune orientamento degli appartenenti, quale che ne sia il grado clericale: diaconi, sacerdoti, vescovi, cardinali. Ovviamente più è alto il grado, maggiore il potere e l’influenza sugli atti di governo e su ogni terreno d’azione: atti mai trasparenti, né sindacabili, secondo le logiche tipiche di una monarchia assoluta il cui capo è al di sopra delle leggi che egli stesso può fare e disfare a piacimento, modellare, cambiare in ogni momento e questo suo potere enorme e smisurato spesso è permeabile, com’è inevitabile, ad una cerchia di persone capaci di ottenere la fiducia del monarca e perciò in grado di incanalarne gli effetti secondo propri interessi, spesso corporativi o di cordate varie.
Lungo il filo delle vicende documentate, una lobby formatasi sul comune orientamento sessuale degli appartenenti – diaconi, sacerdoti, vescovi o cardinali che siano – e soprattutto delle figure più influenti che la rendono forte e attiva, è più che evidente.
Ma a noi, a conclusione della nostra inchiesta, questo elemento interessa solo per una ragione. Se l’orientamento sessuale sul quale si formi una corrente, un’area o una lobby – quale che sia la parola che si voglia utilizzare – è elemento costitutivo e tratto distintivo della lobby stessa ciò accade solo perché l’orientamento medesimo non è un atteggiamento dello spirito o mera condivisione ideale di potenziali inclinazioni di natura, perché se così fosse non vi sarebbe affatto bisogno di alcuna proiezione organizzativa degli interessi – evidentemente da soddisfare e propri di tali inclinazioni – in lobby appunto, né di gesti di mutuo soccorso o di solidarietà cameratesca tra i sodali.
Invece in una serie innumerevole di atti le impronte tipiche di una cricca sono evidenti e ciò rivela il concreto, fattivo perseguimento di obiettivi materiali consistente nell’alimentare un circuito efficiente che possa saldare bisogni e soddisfacimenti, aspirazioni e traguardi, pulsioni e appagamenti, quindi ambizioni, percorsi e carriere. Un atto di potere (purtroppo anche ingiusto e arbitrario, anzi meglio se tale perché ostentazione più forte del potere medesimo) gratifica chi ne beneficia, lo attira alla causa, lo recluta come fante o cavalier servente, ne acquisisce obbedienza e fedeltà acritica, alimentando anche quel serbatoio di disponibilità che può assumere il suo specifico rilievo rispetto all’essenza che è materia prima e cemento dell’appartenenza.
In queste dinamiche accade poi che certe spinte imprimano agli intrecci dello scambio direzioni che ne portino qualche effetto oltre il proprio recinto, anche in capo a chi non abbia lo stesso requisito identitario dell’appartenenza ma, nella convenienza funzionale del sinallagma, si muova in totale sinergia d’interessi, sia pure, nel nostro caso, coltivando diverso orientamento sessuale. Ecco perché in qualche snodo troviamo atti di bullismo istituzionale e di scioccante prepotenza ad uso e consumo di qualche ‘esterno’: esterno si, ma arruolato e integratissimo, ‘fuori quota’, nel sistema efficiente dello scambio in cui la lobby è specializzata. In questi casi si saldano interessi preliminari determinati dal senso di appartenenza per comune orientamento con altri, esterni appunto, che attengono alla forza della lobby e alla sua capacità di servire qualsivoglia soluzioni a chi le chieda.
Rileviamo tutto ciò in generale e quindi senza riferimento alcuno a personaggi, fatti e situazioni. Nell’intreccio degli eventi che abbiamo cercato di dipanare abbiamo incontrato Paolo De Nicolò, Josè Rodriguez Carballo, Corrado Lorefice, Salvatore Farì insieme a tanti altri. E abbiamo incontrato anche Rosario Gisana, Giovanni Salonia e così via. Ma qui interessa solo il dato generale di logiche e dinamiche che mortificano l’istituzione e i valori, morali e giuridici, a cui dovrebbe ispirarsi.
Tutto ciò è certamente esecrabile in relazione a quanto già osservato: l’asservimento di atti, procedure e decisioni, in fatto di governo e di giustizia, a lobbies e interessi organizzati estranei al governo e alla giustizia, di matrice particolare e privata, spesso in contrasto stridente con i doveri istituzionali e, cosa ancora più grave, con i valori etici e morali delle prescrizioni canoniche.
Ma lo è di più per il necessario slittamento interpretativo che consegue al fenomeno. Se possono esistere (ed esistono, eccome: potenti, ben organizzate e agguerrite) in Vaticano e nella Chiesa, dai vertici a diretto contatto con il Papa fino alle parrocchie di periferia, lobbies basate sul comune orientamento sessuale dei chierici aderenti, ciò accade unicamente perché il risultato della loro azione è l’ordinario soddisfacimento degli appetiti – sessuali appunto – propri di tale comunanza.
Il che – fuori dalla perversa logica interna (l’asservimento di funzioni fino allo scempio di verità e giustizia) ci segnala un dato. La sessualità e l’esercizio delle pratiche relative sono realtà quotidiana per molti membri del clero: certamente non tutti perchè tanti chierici vivono con limpidezza e coerenza la loro scelta di vita e il connesso obbligo di celibato; forse non la stragrande maggioranza, ma certo una parte rilevante, al punto che una lobby basata sull’orientamento sessuale degli aderenti, magari una sola tra le varie eventualmente all’opera, possa formarsi, organizzarsi, agire, assumere potere e spenderlo, per i fini propri del requisito soggettivo dei membri costitutivo dell’appartenenza.
Ci troviamo a conoscere fatti di cronaca, notizie sui giornali, scandali, casi giudiziari solo se e quando la casuale rara combinazione di elementi e situazioni ne provoca l’emersione pubblica. Ma nella fisiologia della realtà tale emersione è l’eccezione e non la regola. In ognuno di questi casi (migliaia e sono ‘eccezioni’ che per puro caso scopriamo a fronte di quelli ‘regolari’, quindi molti di più, che rimangono sommersi) sullo sfondo troviamo sempre la descrizione fisiologica e puntuale della realtà corrente, quotidiana, ordinaria la quale ci racconta che, almeno per una parte del clero, la violazione dei doveri del celibato – nell’accezione già chiarita di astinenza sessuale – non è frutto di debolezza ma di ‘forza’, non cedimento ad una tentazione ma regola di vita, frutto di libera volontà non solo caso per caso, atto per atto, relazione per relazione, rapporto per rapporto, ma disegno esistenziale concepito e perseguito con la protezione dell’abito talare. Del resto la percentuale di omosessuali nel clero (un clero finora e tuttora esclusivamente maschile) è molto più alta di quella presente nella società comune e nella realtà complessiva. Segno che per molti chierici la scelta dell’abito (quindi dell’habitat, dello status, dell’ambiente con le sue regole) è spinta, anche se non solo, dalla considerazione che essa possa meglio consentire l’esercizio concreto del proprio orientamento, soprattutto quando anche tra i laici l’omosessualità era tabù e la persecuzione purtroppo praticata e tollerata, come ancora oggi accade in molti paesi: ed anche nel nostro tuttora la discriminazione non è debellata del tutto.
Non credo vi sia bisogno di citare precisi casi di cronaca perchè si abbia un’idea della dimensione del fenomeno che è pura normalità quotidiana per gli uomini di Chiesa, nelle sue stesse stanze o fuori. E nulla aggiungerebbe la citazione dei più scioccanti come quel sacerdote che organizzava orge in chiesa, gare di sesso estremo, giochi erotici con vibratori, frustini e collari, senza badare a spese (con i soldi delle offerte) e che filmava o faceva filmare le scene, catalogando ogni dvd con il nome di un Papa e collezionava falli in lattice disposti in canonica in ordine crescente. Una storia venuta alla luce, nella chiesa San Lazzaro di Padova, dopo sei anni di questa frenetica e sistematica attività, solo perché una donna amante – circuita all’origine dal prete in un momento di debolezza dopo una separazione – ad un certo punto si ribella ad un sistema di violenze in cui è costretta a partecipare ad orge con altri sacerdoti e altre donne della parrocchia indotte o costrette a prostituirsi a beneficio di tanti uomini di chiesa e ad ostentazione del potere che su di loro può esibire il parroco instancabile promotore. Questo è un caso limite di violenze e delitti. Che però ci racconta come la normalità contempli per una parte del clero la sistematica ipocrita menzogna sul rispetto degli obblighi del celibato, anche quando nessun reato venga compiuto.
Fuori da singoli episodi, la casistica generale dei fatti che per accidente talvolta diventano di conoscenza pubblica ci rivela che quale che sia l’orientamento di attrazione – omo, etero o altro – l’attività sessuale di molti (anche se non tutti) uomini di Chiesa è normale, ordinaria, diffusa anche quando non integri alcun reato perchè si esplica con persone adulte il cui consenso sia vero, pieno, libero, consapevole ed effettivo: senza di questi requisiti il consenso non sussiste.
Il cuore dei fatti nella nostra inchiesta è l’affaire-Salonia che partendo dalla bugìa sistematica, necessaria a coprire la violazione del dovere sacerdotale di astinenza dall’attività sessuale, arriva a produrre la ritorsione contro testimoni di verità attraverso la menzogna istituzionale e l’asservimento della giustizia.
Tanti sacerdoti non violano quel dovere e ne portano tutto il peso, ma tanti agiscono diversamente. Abbiamo visto peraltro come le vicende denunciate da suor Teresa definiscano e descrivano violenze sessuali commesse con l’abuso del ruolo dato dall’abito talare e dalla professione di terapeuta. Le altre segnalate, innanzitutto al Papa, da suor Lucia, se non possono essere classificate vere e proprie violenze – perchè il consenso della religiosa in qualche modo non si può escludere vi sia stato – in ogni caso rivelano forme d’abuso, del ruolo e dell’autorità ecclesiastica, nei confronti di una persona che, soprattutto in quell’ambiente e da parte di quella figura, avrebbe avuto diritto a ben altro rispetto di sè.
Pur dovendo distinguere nettamente tra attività sessuale giurdicamente lecita e violenze, non v’è dubbio che, in un sistema segnato dalla discrasia profonda tra regola formale e tasso elevato di violazione, spesso il confine divenga incerto e si producano conseguenze devastanti sull’intera comunità.
Il clero e il sesso: la finzione ipocrita dell’astinenza e la verità sfrontata dell’intemperanza. Non è solo questione morale di superficie, ma infezione profonda dell’intero corpus della Chiesa: la necessità della menzogna produce intrigo, abuso, inganno, ricatto, violenza, corruzione degli atti e delle istituzioni
Perciò il riferimento al tema dell’obbligo di celibato nella nostra inchiesta rileva solo ad un fine, questo: la denuncia dell’ipocrisia, del contrasto tra verità privata e menzogna pubblica, della doppiezza di una Chiesa che non ha il coraggio della coerenza e della responsabilità. Lungi da noi ogni considerazione valoriale del celibato (tanto più nel senso canonico dell’astinenza sessuale), ed anzi considerando la normale libera sessualità elemento connaturato alla persona umana e quindi fattore insopprimibile del suo diritto, in piena libertà secondo le sue scelte, al proprio benessere, il punto è solo questo: perché la Chiesa che predica i valori evangelici (la verità è il primo di questi) pratica la menzogna, addirittura come valore assoluto se ad esso subordina e prostituisce non pochi atti della propria produzione istituzionale, di governo e di giustizia? Se vuole la norma vigente, la allinei alla realtà, favorendone il rispetto, non la violazione. Anche per impedire l’effetto domino dell’infinita serie di brutture che ne conseguono.
La questione è enorme, tale da colpire e indignare chiunque, dentro e fuori la Chiesa, abbia un briciolo di onestà intellettuale. Ma lasciamo questa materia a moralisti, teologi, filosofi, canonisti, persone che a qualunque titolo abbiano voglia di battersi per quella che sarebbe una modifica normativa di uno Stato sovrano che concentra ogni potere nelle mani di un uomo solo, un uomo appunto.
La lasciamo a loro ma teniamo per noi, sperando di mantenerlo sempre vivo, un suo corollario, che è un aspetto inscindibilmente collegato e al tempo stesso una tragica conseguenza. Tragica perché è un’impressionante, inarrestabile, catena di delitti e intrighi, di ogni genere.
Se la menzogna diventa strutturale addirittura in una logica di sistema qual è il dover essere dei suoi membri, quindi nel loro agire corrente, perciò potenzialmente nel prodotto istituzionale di un piccolo Stato e di una grande Chiesa nel mondo, essa produce a cascata un fiume di menzogne, e per conseguenza di inganni, soprusi, raggiri, abusi, violenze. Ad ogni livello.
Potenzialmente questo fiume può insinuarsi o lambire ogni istituzione, organismo, atto, iter, provvedimento, decisione di qualsivoglia tipologia. Attualmente e compiutamente esso alimenta inoltre, in quella parte del clero che viola i suoi doveri, una pratica di rapporti che contempla sistematicamente la finzione, la manipolazione, la truffa, l’induzione concussiva, la violenza sessuale, lo stupro spesso aggravato dalla condizione di debolezza della vittima, favorito dalla coercizione nella desistenza dalla denuncia esterna, protetto dal sistema capillare interno di omertà, di omissione rispetto agli abusatori e, non di rado, di persecuzione della vittima.
Anche Bergoglio ha rinunciato a cambiare le norme sul celibato: lo ha detto esplicitamente nel recente sinodo, rimandando al suo successore ogni improbabile novità. Se ne può solo prendere atto, ben sapendo che la modifica normativa è solo uno dei due modi di affrontare il problema: l’altro è quello di fare rispettare la norma vigente. Una norma si rispetta o la si cambia, affinchè possa essere osservata, togliendo così spazio alla menzogna e all’inganno. Della scelta di papa Francesco, dicevamo, si può solo prendere atto.
Ma una comunità è data dai suoi membri, non – solo – dal proprio vertice. Basterebbe una voce, forte e corale, dal basso e dall’interno, per mettere in crisi e picconare un sistema ipocrita e ambiguo che genera menzogna e favorisce abuso. Ma questa voce non si sente affatto.
Noi, nel nostro piccolo, con questa inchiesta, dal basso e dall’esterno, abbiamo dato un contributo.
7 – fine
Le puntate precedenti sono state pubblicate il 14 ottobre 2023 (qui), 21 ottobre 2023 (qui), 28 ottobre 2023 (qui), 4 novembre 2023 (qui), 11 novembre 2023 (qui) e 18 novembre 2023 (qui).
Qui invece un breve articolo, del 6 novembre 2023, relativo alle dichiarazioni del Papa, lo stesso giorno, sul vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana.