Le testimonianze, in sede ecclesiastica e nel procedimento penale per violenza sessuale che vedeva indagato Giovanni Salonia dopo la nomina a vescovo e l’immediato dietro-front pontificio, tasselli decisivi nel puzzle di una spy-story vaticana culminata nell’ingiusta punizione al fondatore della fraternità di Nazareth Nello Dell’Agli. Le menzogne, anche alla stampa, del potente frate cappuccino (infedeltà al celibato ammessa invece dinanzi ai pm) alla base della sua ‘assoluzione’ canonica e della falsa tesi della volontaria rinuncia
Il Vaticano e la sua ‘giustizia’-shock sul caso Dell’Agli
Non so francamente quale possa essere nella percezione e nella coscienza comuni l’importanza di una condanna, nel processo penale canonico, inflitta dalla giustizia del Vaticano, che è uno Stato: il più piccolo al mondo ma pur sempre, e a tutti gli effetti, un’entità istituzionale statuale comprensiva di tutte le potestà di uno Stato sovrano. Poiché tale sovranità, attraverso la Santa Sede, si dispiega – ben oltre quel meno di mezzo chilometro quadrato che delimita il suo territorio fisico – verso i cattolici di tutto il mondo stimati in oltre un miliardo e trecento milioni (una persona su sei nel pianeta), ritengo che per i fedeli, almeno quelli autenticamente credenti e osservanti delle regole, tale percezione e tale coscienza siano vive e sensibili.
Il Vaticano è una monarchia assoluta, con un capo, il pontefice, nel quale sono concentrati tutti i poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. A fronte di questa massa di potenziali ‘sudditi’, esso conta appena 800 cittadini residenti nel proprio territorio e circa 4800 dipendenti, con un bilancio d’esercizio, quello di Stato in senso stretto, di circa 800 milioni di euro.
In effetti il giro d’affari è ben più alto se aggiungiamo: il ricavato, pari a circa un miliardo, dato dall’8 per mille dell’irpef dei contribuenti italiani; la gestione dei beni interni affidata al Governatorato; di quelli esterni che ammontano a tre miliardi spettante all’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica) la quale controlla anche il portafoglio degli investimenti della Santa Sede del valore di circa un miliardo e mezzo; infine la gestione di un pacchetto di circa cinque miliardi nelle mani dello Ior, l’Istituto delle opere di religione investito nel tempo da una lunga sequenza di scandali il più grave dei quali rimane quello, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, della gestione del vescovo Paul Marcinkus, nominato al vertice della banca vaticana da Paolo VI nel ’71. Gestione marchiata dai rapporti d’affari con la Banca privata di Michele Sindona, dal crac del Banco ambrosiano di Roberto Calvi e dalla complicità con la mafia e con la P2 negli anni in cui questa muoveva a suon di stragi l’attacco fascista alla democrazia, in un intreccio malavitoso degno della spy story di criminali di rango internazionale.
Per quanto non vi siano dati certi, in assenza di un censimento completo degli assets e nella carente trasparenza dei canali finanziari in entrata e in uscita, il patrimonio complessivo del Vaticano è ampiamente superiore ai dieci miliardi di euro.
Ma qui ciò che a noi interessa di questo Stato – giuridicamente fondato sui Patti lateranensi del 1929 – è il versante giudiziario, ovvero l’applicazione delle sue leggi ai sottoposti, con potestà piena ed esclusiva in ogni materia dentro le proprie mura; limitatamente all’ambito disciplinato dal proprio codice di diritto canonico sull’intera comunità di fedeli nel mondo. Interesse, alla base di quest’inchiesta giornalistica, derivante dallo scalpore suscitato dalla vicenda di un sacerdote di Ragusa condannato con la pena massima prevista dal codice di diritto canonico, equivalente all’ergastolo nell’ordinamento penale vigente nella Repubblica italiana o alla pena di morte nel Regno d’Italia e nella successiva fase costituente fino al 1947: la dimissione dallo stato clericale. Nella gamma delle pene questa è la più pesante, prevista quindi per i delitti più gravi come, per esempio, l’omicidio.
Un innocente, falsamente imputato, condannato con la pena massima
Non è nostro intento discutere dei ‘delitti e delle pene’, o della congruità di queste ultime fissata nel codice, ma dell’applicazione della norma nel caso concreto e, soprattutto, dell’autentico scandalo costituito da una sentenza che appare assurda, illogica, immotivata, arbitraria, in contrasto con i dati di realtà e con quelli processuali.
Magari la perdita dello status di sacerdote, alle persone comuni che non fanno parte del clero, potrà sembrare una cosa lieve (perciò in premessa il richiamo alla percezione corrente) ma si tratta, comunque, della pena massima, prevista quindi per il delitto più grave che un chierico possa commettere secondo il processo penale canonico: si consideri anche che l’ordinamento canonico, anche dopo l’ultima riforma di papa Francesco del 2020, rimane la fonte normativa principale dell’intero sistema giurisdizionale del Vaticano e, per suo tramite, della Santa sede che opera nel mondo.
Pertanto la contestazione del delitto, la formulazione dell’accusa, l’imputazione, la ricerca e la formazione della prova, l’istruttoria e la sentenza devono rispondere ai canoni (i ‘canoni’ appunto, talmente importanti da avere dato nome e forma al concetto stesso di norma giuridica universale) previsti dalla legge applicabile e non possono violarla diventando abuso ed arbitrio. E invece l’analisi rigorosa di ogni elemento della vicenda conduce a questa sola conclusione: una macroscopica ingiustizia conseguita attraverso la totale falsificazione degli elementi processuali; così macroscopica da spostare l’intera questione sul perché. Come è stato possibile un ‘abbaglio’ di tali dimensioni? Poiché nessun errore, anche il più grave e grossolano, potrebbe mai giustificare l’assurda sentenza, non può trattarsi di errore ma di una volontà deliberata dell’organo giudicante. Rispetto alla quale s’impone d’interrogarsi sul perché.
Protagonista di questo caso è Sebastiano, noto come Nello, Dell’Agli, 63 anni, ordinato sacerdote 12 anni fa in età avanzata, teologo, docente e psicoterapeuta, promotore della fondazione della ‘fraternità di Nazareth’, associazione privata di fedeli eretta nel 2008 dal vescovo della diocesi di Ragusa Paolo Urso che ne approva la regola. Per effetto della condanna, inappellabile, potremmo definirlo un ‘ex sacerdote’, definizione sostanzialmente appropriata perché l’amissio status clericalis lo dispensa, in questo caso per effetto di condanna penale, dagli obblighi del sacramento dell’ordine ed egli non potrà esercitare il ministero. Per il diritto canonico però <<la sacra ordinazione, una volta validamente ricevuta non diviene mai nulla>> (canone 290): pertanto lo status sacerdotale non può mai essere perduto in quanto l’ordinazione è un sacramento che, come tale, al pari del battesimo, conferisce un carattere indelebile.
La condanna ricevuta non lo attinge solo come sacerdote, ma anche nella sfera professionale, e quindi nella vita materiale, in quanto gli preclude l’insegnamento. Di fatto Dell’Agli ha perso il lavoro. Pena doppia e beffarda se si considera che, come abbiamo visto, egli è stato innanzitutto un professionista e solo in seguito, all’età di 51 anni, sacerdote. La pena inflittagli quest’anno lo colpisce per sempre anche nei titoli (pontifici) di dottore in teologia e psicoterapia che lo abilitano all’insegnamento, finora esercitato nella facoltà di scienze della formazione della Lumsa, nella facoltà teologica di Sicilia e nell’università pontificia Antonianum di Roma.
Le spiegazioni trasparenti da una parte, il silenzio di un potere oscuro dall’altra
In sintesi i fatti. Il 30 luglio 2021 l’associazione fraternità di Nazareth viene soppressa: vedremo in seguito quando e come ha origine la vicenda. Per adesso limitiamoci alle comunicazioni dell’autorità ecclesiastica che assume il drastico provvedimento. Ecco tutto ciò che la diocesi riesce a dire per spiegarlo: <<a seguito delle conclusioni cui è pervenuto il commissario pontificio e visitatore apostolico dell’Associazione privata di fedeli Fraternità di Nazareth, il Vescovo, monsignor Giuseppe La Placa, ha disposto la soppressione della suddetta associazione con un decreto del 30 luglio scorso (prot. 924/21), non sussistendo ‘più i requisiti minimi perché possa continuare’».
Due anni dopo, il 19 giugno 2023 giunge la condanna di Dell’Agli per decisione del dicastero per il clero, comunicata dal vescovo di Ragusa Giuseppe La Placa a tutti i sacerdoti.
Sorprende innanzitutto il silenzio su tale punizione estrema da parte di chi la decide e di chi, ad ogni livello, contribuisce a determinarla. Silenzio assoluto sull’intera vicenda, sia da parte delle autorità vaticane e degli organi del processo, che da parte della diocesi di Ragusa direttamente interessata. Una prima considerazione s’impone: se alla fine viene irrogata la pena massima possibile, ciò vuol dire che dovremmo essere di fronte ai delitti più gravi. Eppure, niente, silenzio assoluto, non senza imbarazzo: non per i delitti, inesistenti, ma per la pena, assurda e imbarazzante perchè recante, in bell’evidenza nel decreto che la commina, lo stigma del sopruso e del capriccio malandrino del potere.
Dall’altra parte invece disponibilità a chiarire e spiegare. L’imputato condannato, l’ormai ex sacerdote nel senso chiarito, dopo la comunicazione pubblica del provvedimento da parte della diocesi, dimostra di non avere alcunchè da nascondere del proprio operato, analizzando gli elementi del processo e del dispositivo finale, non solo con proprie comunicazioni, ma anche rispondendo a domande e misurandosi con le singole contestazioni. In proposito merita di essere letta e vagliata per intero una sua dichiarazione alla stampa che affronta e demolisce ogni punto della sentenza (qui). Di grande interesse anche le sue risposte (qui) alle domande che gli sono ulteriormente poste, nel silenzio di chi avrebbe dovuto invece puntualmente spiegare le assurde conclusioni del provvedimento. Qui una lettera-testimonianza agli organi di informazione da parte di tre persone appartenenti alla fraternità ormai soppressa.
Già questo elemento, da solo, – la disponibilità trasparente dell’imputato e il silenzio dell’istituzione che lo condanna, compresi i relativi portatori d’interessi – fornisce solitamente una guida utile alla comprensione della realtà. Che comunque emerge in tutta la sua evidenza appena si entra nel merito, si guardano gli atti processuali, si confrontano le accuse con le prove emerse e, infine, si valuta la sentenza: più grossolana e meno convincente della trovata di un azzeccagarbugli; più simile all’autoreferenziale pretesa di brutti ceffi che – in romanesco verace ma in abiti da giudici – sembrino ispirarsi al ‘marchese del grillo’ o cedere alle sue pratiche.
Un ‘tribunale ad hoc’ e nessuna accusa vera
Di seguito solo qualche cenno, sulla base di attenta verifica documentale di quanto asserito dall’ex sacerdote.
1 .La condanna non è emessa da un giudice naturale, ma confezionata da un tribunale ad hoc, al tempo del vescovo Carmelo Cuttitta, successore di Urso sotto il quale è nata la fraternità di Nazareth.
2. Nel merito la condanna risulta pronunciata per fatti non corrispondenti ai capi d’accusa o mai contestati, non provati nel processo e, in alcuni casi, negati proprio dal processo che fornisce prova del contrario. Per tutti basti l’esempio del promotore di giustizia (figura equivalente al pubblico ministero del nostro processo penale) che afferma: <<non vi sono riscontri di movimenti di contanti che … sicuramente ci saranno stati>> (sic!).
3. A proposito del ‘tribunale ad hoc’, da rilevare che esso, per alcuni capi d’accusa chiede la condanna (per esempio relativamente all’imputazione di “assoluzione del complice nel peccato turpe e di violazione del sigillo sacramentale”) senza però poterla emettere, trattandosi di delicta graviora, per difetto di competenza la quale spetta invece alla congregazione per la dottrina della fede, appunto il tribunale superiore per i delitti più gravi. Tale giudice, ‘naturale’ appunto per competenza, proscioglie Dell’Agli per mancanza assoluta degli elementi minimi necessari per avviare un processo.
4. Insomma, non ci sono fatti, non ci sono accuse che reggano in giudizio, non ci sono prove ma c’è una sola cosa che vale per tutte: il ‘tribunale ad hoc’, un tribunale di prima istanza la cui sentenza quindi dovrebbe poter essere esaminata da quello d’appello. Ma all’imputato ciò non viene consentito. Perché sulla sentenza del tribunale ad hoc (<<imposto a suo tempo all’allora vescovo Cuttitta quando già stava male ed era prossimo alle dimissioni>> chiarisce Dell’Agli), viene apposta la firma del pontefice che equivale ad una pietra tombale. Del resto egli è un monarca assoluto ed è in suo nome che viene amministrata la giustizia nel suo Stato. Sarebbe interessante sapere chi e con quali argomenti convinca papa Francesco a limitare l’integrità del diritto di difesa che, così come altri princìpi cardine propri degli Stati a statuto costituzionale, figura tra gli orientamenti del Vaticano storicamente ispirato – fin dal codice penale Zanardelli, pur nella diversa natura del potere dei suoi organi – all’ordinamento giudiziario italiano.
Se questi sono solo alcuni esempi, emblematici dell’assurdità della sentenza e della sua imposizione blindata contro ogni ‘rischio’ di correzione dei suoi errori e dei suoi orrori, rimane la domanda del perché tutto questo: una via per trovare la risposta la fornisce, ancora una volta, l’imputato che, come già precisato, non si sottrae al confronto sulla vicenda.
Il teste Urso: <<c’era in chi accusava Dell’Agli un tentativo di vendetta>>
Nella nota alla stampa sopra richiamata Dell’Agli riporta la testimonianza del vescovo Urso: «Nelle accuse che ricevetti ebbi l’impressione che c’era in chi accusava un tentativo di vendetta. A me sembrava che ci fosse qualcuno che voleva far pagare a Sebastiano qualcosa».
Scrive ancora l’ex sacerdote: <<Nel 2017, e poi nel 2018 ho ricevuto due precise richieste di testimonianza: una dall’autorità vaticana riguardo a una nomina episcopale, l’altra dalla procura di Roma in un processo intentato da una suora, contro lo stesso ex candidato all’episcopato. Dopo tali mie testimonianze, la fraternità di Nazareth è stata prima commissariata e poi sciolta e io sono stato sottoposto a un processo ecclesiastico. Devo amaramente concludere che se fossi stato omertoso, rifiutandomi di testimoniare, non avrei subito tutto quello che ho subito>>.
Parole chiare, precise, tali da indicare la via della ricerca di ogni spiegazione. Occorre solo esaminare con rigore i fatti, ricostruirli, verificare la fondatezza delle affermazioni dell’imputato condannato, approfondire, documentare e scoprire le vicende sottostanti. E ciò non solo per svelare il perché di un clamoroso caso di ingiustizia, ma anche per portare alla luce fatti di sicuro interesse che coinvolgono un ‘quasi vescovo’, in effetti un vescovo nominato dal papa ma poi non consacrato, e quindi non insediatosi, formalmente per sua rinuncia.
Si tratta di Giovanni Salonia, nominato da Bergoglio il 10 febbraio 2017 vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Palermo, carica che lo avrebbe portato ad essere il vicario generale dell’arcivescovo Corrado Lorefice il quale, di fatto, all’epoca lo sceglie e lo vuole con se alla luce dei rapporti con lui intrattenuti a Modica quando egli era arciprete del duomo di San Pietro e Salonia responsabile della formazione permanente, e prima ancora ministro provinciale, dei frati cappuccini. I due peraltro per decenni incrociano interessi ed esperienze comuni in attività pastorali e in quelle d’insegnamento.
Chi è Salonia quando il 10 febbraio 2017, a 70 anni, viene ordinato vescovo? Per la precisione, come detto, vescovo ausiliare, figura prevista nelle diocesi più grandi (Roma e Rio de Janeiro ne hanno otto) proprio per affiancare Lorefice, il prete che a dicembre 2015, all’età di 53 anni, il pontefice pone al vertice della chiesa siciliana nominandolo arcivescovo metropolita di Palermo, primate di Sicilia e gran cancelliere della pontificia facoltà teologica di Sicilia. Peraltro dallo scorso anno, nel nuovo corso della Cei guidata da Matteo Maria Zuppi – nominato arcivescovo di Bologna (era vescovo ausiliare a Roma) lo stesso giorno di Lorefice -, questi è vice presidente della Conferenza episcopale siciliana.
L’assurda e ingiusta condanna è la ritorsione per una testimonianza in giudizio?
Salonia, 76 anni – licenza in teologia e in scienze dell’educazione – è un frate cappuccino di lungo corso. Entrato oltre sessant’anni fa, quindicenne, in convento dove per nove anni è ‘fra Saverio, nell’Ordine dei frati minori cappuccini della provincia di Siracusa, sacerdote a 24 anni, è direttore degli studenti cappuccini a Ragusa, definitore provinciale, vicario provinciale, ministro provinciale, superiore e maestro dei novizi a Modica. Intensa la sua attività di psicoterapeuta, di docente e di autore di pubblicazioni (come Dell’Agli), all’insegna della specializzazione conseguita a San Diego in California nel 1987, in psicoterapia della Gestalt, un metodo che valorizza l’esperienza corporea del contatto.
Salonia, pur nominato dal papa, non diviene vescovo e sul caso si consuma un ‘giallo’. Risolto due mesi dopo, con la sua apparente rinuncia, nelle segrete stanze del potere vaticano e sulla stampa: passaggio inevitabile dopo la solenne nomina pontificia pubblicata negli Acta Apostolicae Sedis e nel bollettino quotidiano a cura della sala stampa. Rinuncia comunicata e motivata in una lettera che tutti, o quasi, prendono per buona. In essa però Salonia non dice affatto la verità: anzi dice esattamente il suo contrario che sottoscrive, con la propria firma su un atto così solenne, e propala a presbiteri, diaconi e fedeli.
Ma andiamo con ordine. Appena nominato, il 10 febbraio 2017, Salonia sprizza entusiasmo e rivolge ai clero dell’arcidiocesi di Palermo un lungo messaggio in cui definisce <<un grande dono essere ausiliare di don Corrado, il pastore e fratello che ho conosciuto da vicino nei recenti anni di permanenza a Modica>>; invita i diaconi <<che saluta nel nome di Cristo servo>> a <<mantenere vigile l’attenzione ai più piccoli, ai più poveri, agli ammalati, così da aiutare tutta la Chiesa ad abitare con verità le vie delle ‘periferie umane’>>; arriva perfino a comunicare il motto episcopale prescelto, tratto dalla lettera di Paolo di Tarso agli Efesini ‘per edificare il corpo di Cristo’ perché – spiega – <<il corpo di Cristo ricapitola la storia della salvezza>>.
Scopriremo che ben presto, neanche 48 ore dopo, l’unica salvezza della quale il neo vescovo debba occuparsi è quella della propria reputazione attraverso la costruzione triangolare in gran segreto, con l’arcidiocesi di Palermo e la Santa Sede, di una personale e rovinosa via di fuga dall’incarico prima accolto con giubilo: scappatoia necessaria, per ordine papale, a mettere a tacere fatti compromettenti del suo passato di sacerdote e di religioso.
Salonia vescovo mancato: su di lui non calunnie ma verità
e la sua non fu una rinuncia volontaria
Ben presto affiorano pubblicamente i primi segni di quello che sarà un colpo di scena, quando, un mese dopo la nomina e la sua pubblicazione, filtra la notizia che il nunzio apostolico in Italia Adriano Bernardini chiede a Lorefice di non dare corso all’imminente consacrazione per la necessità di un ‘supplemento d’indagine’. Bernardini è colui che, proprio in qualità di nunzio in Italia, il 10 febbraio <<consegna la volontà di papa Francesco>> al neo vescovo, come questi scrive nell’incipit del messaggio all’arcidiocesi.
Colpo di scena lo è, ed è senza precedenti se si considera che la nomina di un vescovo è la risultante di un procedimento complesso e articolato basato su una lunga istruttoria che scandaglia la biografia dei candidati. A dire il vero, nel caso di un ‘ausiliare’ la procedura è più semplice in quanto è il vescovo diocesano, e non il nunzio apostolico dopo lunghe consultazioni con il clero, a scegliere tre sacerdoti da presentare per la nomina. Scelta cui Lorefice si decide con un certo ritardo, dopo avere consultato per otto mesi diaconi e presbiteri dell’arcidiocesi sul nome del vicario generale, un sacerdote nominato ad ottobre 2016, come qualcuno, quando esplode il caso in un clima di polemiche e veleni, è pronto a rinfacciargli.
Tornando alla procedura, anche nel caso della nomina di un vescovo ausiliare il nunzio ha pur sempre il dovere di raccogliere informazioni e opinioni sui nomi selezionati e il dicastero competente può non sceglierne alcuno e chiedere un diverso elenco. Il candidato infatti, secondo il canone 378, deve essere <<eminente per fede salda, buoni costumi, pietà, zelo per le anime, saggezza, prudenza e virtù umane, e inoltre dotato di tutte le altre qualità che lo rendono adatto a compiere l’ufficio in questione>>. Ecco perché fa scalpore il supplemento d’indagine chiesto dal nunzio a nomina già avvenuta e pubblicata. E se questa verità trapela, anziché essere soffocata nelle manovre interne volte alla costruzione di quella via di fuga, è merito del FarodiRoma, quotidiano on line attivo dal 2015, ricco di informazioni dettagliate sul Vaticano, edito in quattro lingue – italiano, francese spagnolo e portoghese – proprio quelle dei paesi in cui la Chiesa cattolica è più forte e strutturata. Infatti questo organo d’informazione è il primo, il 19 marzo 2017, con un articolo di Francesco Grana, a dare la notizia, poi ripresa da altri quotidiani, dello stop alla consacrazione di Salonia imposto dal nunzio Bernardini al vescovo diocesano Lorefice.
Un mese dopo, il 17 aprile, è ancora FarodiRoma a riferire che la decisione è ormai presa definitivamente: <<Giovanni Salonia – scrive ancora Grana – non riceverà l’ordinazione episcopale. Una decisione che arriva dopo poco più di due mesi dalla pubblicazione della nomina con uno stop quasi immediato, imposto dalla Santa Sede, al quale è subito seguito un supplemento d’indagine. Si valuta anche la formula con la quale sarà resa pubblica la “rinuncia” di monsignor Salonia al ruolo di vescovo ausiliare di Palermo. Il Papa, che è già stato consultato e al quale spetterà anche in questo caso l’ultima parola, si è mostrato disponibile a un’espressione inedita per annunciare il passo indietro del frate cappuccino con la speranza che la vicenda sia chiusa rapidamente. Salonia avrebbe chiesto di precisare che la sua rinuncia è dovuta a ‘voci calunniose’ (la via di fuga cui si accennava prima, n.d.r). Una vicenda che fin dalla sua genesi ha irritato non poco il clero palermitano dopo che, per otto mesi, Lorefice lo aveva consultato per scegliere il vicario generale nella persona di monsignor Giuseppe Oliveri, nominato anche moderatore della curia>>.
Per la cronaca, Oliveri, sacerdote oggi sessantottenne, designato vicario generale quattro mesi prima della nomina di Salonia – il quale con lo status di vescovo avrebbe affiancato Lorefice e ne sarebbe stato il nuovo e più titolato vicario generale – ancora oggi conserva il suo incarico perché, sei anni dopo l’incidente, l’arcidiocesi non ha ancora un vescovo ausiliare.
L’ultimo è Carmelo Cuttitta, in carica nel capoluogo siciliano fino alla sua nomina a vescovo di Ragusa, il 7 ottobre 2015, stessa data dell’ordinazione di Lorefice.
L’arcidiocesi di Palermo, Lorefice, il vescovo ausiliare mancato
e la gestione Romeo-Cuttitta: la copertura dei preti pedofili
Cuttitta per otto anni, dal 2007, è ausiliare del predecessore di Lorefice, Paolo Romeo, prelato siciliano di lungo corso, per 32 anni vescovo e per cinque cardinale al momento della pensione, nunzio apostolico in giro per il mondo (Haiti, Colombia, Canada) e poi in Italia prima di diventare nel 2006 arcivescovo di Palermo e di indossare, nel 2010, la porpora cardinalizia. Dei suoi nove anni di guida dell’arcidiocesi di Palermo e degli otto a capo della conferenza episcopale isolana, oltre al completamento dell’iter di beatificazione di Pino Puglisi avviato dal predecessore Salvatore De Giorgi, si ricordano l’insabbiamento, nel 2012, della proposta di un osservatorio ecclesiale sulla mafia da istituire nella conferenza episcopale siciliana e lo scandalo della mancata denuncia del prete pedofilo Roberto Elice, arrestato a febbraio 2016 per violenza sessuale nei confronti di bambini della chiesa Maria Santissima Assunta, in via Perpignano a Palermo, di cui è parroco. Romeo ne è a conoscenza da un anno e mezzo per stessa ammissione del sacerdote ma non fa alcuna segnalazione alla polizia giudiziaria la quale si trova solo in seguito, per una casualità fortunata, a potere indagare per altra via, grazie alla testimonianza di un bambino (uno solo dei tanti abusati), mentre il sacerdote, un anno e mezzo prima di essere arrestato, ammette al cardinale Romeo che sono molteplici le piccole vittime delle sue violenze.
Se la polizia non avesse scoperto quegli abusi grazie a notizie, acquisite solo successivamente, in modo diretto e nonostante il silenzio del prelato, quel prete pedofilo poi arrestato sarebbe rimasto libero per sempre di reiterare i suoi reati come dimostra l’impietosa casistica in materia: ogni denuncia interna alla Chiesa produce, nel migliore dei casi, un trasferimento in altre parrocchie dove il predatore sessuale è libero di scorrazzare, violando i bambini a lui affidati, fino a nuovi scandali e, se va bene, a nuovi trasferimenti. La realtà dimostra che, in Italia, solo con la denuncia alla magistratura penale gli accusati vengono fermati, i fatti seriamente accertati e i responsabili puniti. E accade inoltre, in Italia e in Spagna (meno o per nulla in altri Paesi) che il clero non collabori affatto e faccia tutto il possibile per nascondere gli abusi sessuali compiuti da suoi membri in danno di minori.
Tant’è che – ma con quanto ritardo – il 17 dicembre 2019 papa Francesco pone un argine a questo scandalo facendo cadere il segreto pontificio sugli abusi sessuali. Una svolta storica, affidata ad un rescritto concernente i delitti contro il sesto comandamento, elencati in dettaglio dall’articolo 1 del Motu proprio ‘Vos estis lux mundi’ emanato sette mesi prima, il 7 maggio. Tali delitti sono tutti quelli riguardanti gli abusi sessuali commessi da uomini del clero in danno di minori o persone fragili, nonché gli atti di copertura dei colpevoli e di depistaggio delle indagini.
Vero è che il cardinale, Romeo, e il vescovo, il suo ausiliare Cuttitta, trattano gli scandali dell’arcidiocesi palermitana prima di questa svolta, ma c’è da chiedersi: può essere questa una giustificazione, tanto meno morale, se solo si considera che anche un semplice insegnante, dentro la scuola pubblica (e quanti sacerdoti lo sono) è un pubblico ufficiale sul quale, in quanto tale, grava l’obbligo penale della denuncia di reati di cui vengano a conoscenza?
Ad ottobre 2015 come abbiamo visto Romeo esce di scena, Cuttitta va a guidare la diocesi di Ragusa e a Palermo s’insedia Lorefice.
Trame diocesane con il sigillo vaticano, tra menzogne, omertà e compagnie di giro
Tornando all’affaire-Salonia, la notizia che il neo vescovo non sarà mai consacrato è pubblicata da FarodiRoma il 17 aprile 2017 e ripresa da varie testate, locali e nazionali, le quali riconducono tali voci alla sua qualificazione di ‘persona indegna’ e con ‘trascorsi di infedeltà al celibato’. Essa trova puntuale conferma dieci giorni dopo, il 27 aprile, quando l’influente cappuccino in una lettera all’arcidiocesi comunica di avere <<consegnato nelle mani del Santo Padre la rinuncia alla consacrazione>>, rinuncia che spiega così: <<Avevo accettato in spirito di servizio ecclesiale questo impegnativo e delicato ufficio, a cui, in modo imprevisto e inaspettato, ero stato chiamato. Tale nomina, mentre in tanti aveva suscitato sentimenti di gioia e di speranza, in qualcun altro ha provocato intensi sentimenti negativi, con attacchi nei miei confronti infondati, calunniosi e inconsistenti, ma che potrebbero diventare oggetto di diverse forme di strumentalizzazione, anche di tipo mediatico. Per tali ragioni, con la dignità interiore di chi mette in secondo piano i propri diritti pur di servire la Chiesa e con lo stesso amore ecclesiale con cui avevo accettato la nomina, ho deciso di rinunciare alla consacrazione episcopale. Non voglio in alcun modo che l’esercizio del mio ministero possa essere inquinato>>.
Nella lunga lettera dai toni suadenti e concilianti, improntati alla tesi della propria libera scelta di sopportare un ingiusto sacrificio personale, tanto più ingiusto quanto più frutto di ‘calunnie’, per il superiore interesse della Chiesa, Salonia chiede <<allo Spirito di farmi comprendere la volontà del Padre in questa misteriosa vicenda e di concedermi la grazia di perdonare quanti si sono dimostrati a me avversi. Sarò grato a tutti coloro che custodiranno questa dolorosa vicenda nella preghiera, facendo emergere i dati di verità e di umanità in essa celati>>.
La rinuncia arriva pochi giorni prima della consacrazione che avrebbe dovuto svolgersi nella cattedrale di Palermo entro il 10 maggio, scadenza dei tre mesi canonici dalla pubblicazione della bolla pontificia. Sul sito di Catholic-hierarchy, sempre molto informato e preciso sulla vita dell’episcopato mondiale, in quel periodo campeggia la scritta ‘day uncertain’, proprio perché lo stop immediato impedisce di fissarla, ma nel contempo già da alcune settimane si annuncia: celebrante sarà l’arcivescovo Corrado Lorefice e consacranti principali i vescovi Rosario Gisana, della diocesi di Piazza Armerina, e Giuseppe Costanzo, emerito dell’arcidiocesi di Siracusa.
Da Lorefice a Salonia, a Gisana: il vescovo che in conflitto d’interessi
proscioglie l’influente cappuccino con un’indagine farsa
Il nome di Gisana, che è di Modica, va tenuto presente perché lo ritroviamo anche, in pratica negli stessi giorni, nelle vesti di giudice-inquirente nell’indagine ecclesiastica che deve esaminare le asserite ‘calunnie’ sul conto di Salonia. Insomma il vescovo prescelto per consacrarlo è anche colui che nello stesso periodo lo proscioglie dalle accuse per le quali quella consacrazione viene sospesa e poi annullata con la parvenza della volontaria rinuncia.
In proposito dubbi e misteri s’intrecciano togliendo ogni credibile parvenza di serietà, e soprattutto di veridicità, alla conclusione istruttoria cui Gisana s’incarica di pervenire, posto a capo di un organismo difficile da definire e incasellare nella casistica contemplata dal processo canonico. Come dicevamo, il Vaticano è una monarchia assoluta e la giustizia è amministrata in nome del monarca, il pontefice, il quale fa anche le leggi e ad esse non è soggetto: lo sono ovviamente i magistrati nominati da lui che su tutto ha potere assoluto. Pertanto ogni atto che abbia il suo avallo prevale sulle norme, anche nel settore della giustizia e, in questo caso, dei processi istruiti sulla base del codice di diritto canonico.
Fin qui sappiamo che Salonia appena nominato vescovo vede la consacrazione bloccata – per ordine del Papa che dispone un supplemento d’indagine – e poi rinuncia, non perché, a suo dire, colpevole di qualcosa, ma solo per le ‘voci calunniose’ seguite alla sua nomina ed egli, <<pur totalmente innocente rispetto a tali denunce>>, preferisce sacrificarsi per il bene della Chiesa.
Ma chi è che stabilisce che le denunce siano false e, addirittura, calunniose? Lo sancisce in atti segretissimi – a disposizione solo di coloro che li redigono, di chi li ha fatti nominare, dell’accusato e del ristrettissimo circuito fiduciario – un organismo simile ad una commissione, anche questa ad hoc, istituita il 2 marzo 2017: la presiede, come accennato, il vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana e ne fanno parte il vescovo di Trapani Pietro Maria Fragnelli e, con mansioni di segretario verbalizzante, il presbitero dell’arcidiocesi di Catania Adolfo Longhitano, docente della facoltà teologica di Sicilia e vicario giudiziale della stessa arcidiocesi.
La commissione è disposta da papa Francesco dopo insistenti pressioni dell’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice che ha fortemente voluto la nomina di Salonia come proprio ausiliare e la sua ordinazione a vescovo. Le denunce, segnalazioni e voci che giungono in Vaticano subito dopo tale nomina sono diverse, la commissione decide che non vi sia nulla su cui indagare e che nessun processo canonico debba essere intentato al neo vescovo. Tali segnalazioni provengono principalmente da suore che si rivolgono al pontefice, spinte istintivamente da quella nomina che le fa indignare essendo a conoscenza sul conto del frate cappuccino di fatti gravi – nonché di abusi sessuali di cui alcune di loro denunciano di essere vittime – compromettenti e incompatibili con il ministero episcopale: a dire il vero anche presbiteriale in senso lato, ma quando Salonia viene nominato vescovo è sacerdote da 46 anni e nessuna autorità vaticana ha mai messo in discussione il suo status. Ma vescovo no! E’ troppo e scatta l’appello delle religiose a papa Francesco perché sappia ciò che probabilmente ignora quando lo eleva al soglio episcopale su richiesta di Lorefice il quale lo ha scelto come proprio ausiliare.
Le denunce sono più d’una ma quel minimo – totalmente insufficiente – di parvenza di istruttoria svolta dalla commissione ad hoc affidata a Gisana si concentra su una lettera scritta da un’ex suora e pervenuta in Vaticano da una regione dell’Italia centrale. Un’altra lettera è spedita da una suora del Nord Italia mentre non risulta affatto che ne giungano dalla Sicilia, nè, quindi, in particolare, da Ragusa. Dell’Agli solo in seguito scrive una lettera su richiesta dell’autorità vaticana che vuole vagliare le segnalazioni ricevute.
Peraltro le due denunce al Papa riguardano vicende entrate successivamente, per querela o testimonianze, in un procedimento penale dello Stato italiano, aperto dalla procura di Roma la quale, espletate le indagini preliminari, conclude chiedendo il rinvio a giudizio di Salonia con l’accusa di violenza sessuale aggravata. E ciò, pur con tutti i limiti di un processo penale arrestato poi per tardiva presentazione della querela, consente di averne contezza più di quanto permetta la giustizia vaticana.
Le menzogne vaticane e la scabrosa verità attestata
dai pm italiani: è lo stesso Salonia a confessarla
Tanto basta per rilevare che non ha alcun fondamento l’affermazione che quelle lettere siano partite da Ragusa: se quella di Dell’Agli scaturisce da una richiesta vaticana in sede di verifica della fondatezza dei fatti segnalati non può essere compresa tra queste. L’affermazione è resa da Salonia ad ottobre 2018 nell’interrogatorio dinanzi a due pubblici ministeri della procura di Roma e, in precedenza, rilanciata da tutti gli organi di stampa quando a marzo ed aprile 2017 riferiscono prima dello stop alla consacrazione del neo vescovo e poi della sua rinuncia. In proposito i giornali non riportano affermazioni virgolettate di Salonia ma tutti, ispirati da un’unica fonte, usano le stesse parole: <<voci calunniose giunte in Vaticano attraverso una lettera>>, per alcuni un dossier <<proveniente da Ragusa>>.
L’anno dopo, dinanzi ai due magistrati inquirenti, Salonia indicherà anche una data precisa: <<l’11 febbraio 2017>>, cioè il giorno dopo la sua nomina a vescovo <<arrivò in Vaticano una lettera da Ragusa>>. Nei numerosi articoli di stampa di marzo e aprile 2017 viene concordemente descritto l’oggetto di tali <<voci calunniose giunte da Ragusa>>: violazione degli obblighi del celibato. Chiaro quindi l’oggetto dell’addebito e chiara anche, secondo la stampa e nella narrazione costruita in Vaticano, la sua comprovata infondatezza.
A parte FarodiRoma – il primo giornale a dare la notizia il 19 marzo 2017 e ad annunciarne in anticipo i successivi sviluppi – di tale infondatezza sono certe tutte le testate, alimentate da una fonte univoca: l’arcivescovo di Palermo Lorefice e il suo vescovo ausiliare designato Salonia. Sulla stampa quindi una certezza: voci calunniose hanno segnalato al papa – falsamente, se no esse non sarebbero calunniose – l’infedeltà al celibato; tali voci sono l’unico motivo del blocco dell’iter di nomina e d’insediamento del vescovo prima, e – una volta accertate come non vere e calunniose – della rinuncia di questi dopo.
Ma tutto ciò è una menzogna fabbricata appositamente: perché le denunce non riguardano solo questo ‘addebito’ e, almeno su questo, non sono affatto false né calunniose, ma vere: e a confermarlo è lo stesso Salonia dinanzi alla magistratura penale italiana. Altro che voci calunniose come la stampa fa credere secondo i voleri di chi in Vaticano sequestra la verità, confeziona la menzogna e la serve all’esterno con il sigillo di una così altolocata autorità ‘morale’!
Vedremo nel merito, in modo preciso e dettagliato, le vicende denunciate dalla suora del Nord Italia e dall’ex suora dell’Italia centrale ma intanto qui mettiamo in fila i fatti e le date: il 10 febbraio 2017 Salonia è nominato vescovo. Quasi immediatamente giungono le lettere: la prima, quella dell’ex suora, addirittura il giorno dopo, l’11 febbraio. Il pontefice blocca la consacrazione, e quindi l’insediamento, e ordina un supplemento d’indagine così come il 19 marzo 2017 con uno scoop rivela FarodiRoma che riferisce dello stop imposto a Lorefice dal nunzio apostolico in Italia Adriano Bernardini perché <<si rende necessario un supplemento d’indagine>>.
Ben prima che tale notizia diventi pubblica, già dall’11 febbraio 2017 quando giunge in Vaticano la lettera dell’ex suora e nei giorni seguenti, Lorefice, convinto (da Salonia?) di sostenere che si tratti di ‘calunnie’, caldeggia la nomina di questa commissione con Gisana a capo, tant’è che, come abbiamo visto, il Papa da una parte affida al nunzio Bernardini lo stop alla nomina perché siano condotte nuove indagini e, successivamente, conferisce il potere di compierle a chi possa meglio coltivare la conclusione, cara a Lorefice e Salonia, che quelle voci siano infondate e addirittura calunniose: conclusione falsa perché quelle voci non sono né infondate, né tanto meno calunniose! E non è affatto difficile dimostrare la falsità della conclusione della commissione Gisana perché a confessarlo, nel chiuso di una stanza dinanzi ai pubblici ministeri di Roma il 18 ottobre 2018, è lo stesso Salonia il quale pure, un anno e mezzo prima, con la lettera di rinuncia del 27 aprile 2017, dirama ‘a reti unificate’ quella menzogna che anche il Vaticano decide di spacciare per verità.
La via di fuga (dalla verità) offerta al vescovo mancato e il ‘florilegio emotivo’:
lo diagnosticano nei testimoni gli ‘azzeccagarbugli’ ecclesiastici
Lo strumento (il supplemento d’indagine annunciato da Bernardini) attraverso cui giungere a tale risultato non è l’istruzione di un processo ma un atto preliminare che lo esclude e lo preclude, una procedura chiusa, senza alcuna trasparenza, senza garanzia delle parti, senza evidenza alcuna di accertamento della verità: anzi con piena evidenza di falsificazione della realtà.
E’ un’istruttoria interna condotta con totale discrezionalità, strumentale ad un risultato che più di un indizio fa apparire predeterminato, in funzione dell’esito finale della rinuncia ‘volontaria’ del cappuccino allo status episcopale: rinuncia frutto del ‘delitto perfetto’ della fuga dalla verità e dalle responsabilità: fuga di Salonia, fuga di chi lo protegge e lo sostiene, fuga delle autorità vaticane e della finta ‘giustizia’ che volge nel suo contrario.
Fuori dalla cerchia ristretta formata dall’accusato da prosciogliere, dai giudici incaricati di farlo e dai loro danti causa trapela solo che alla base del verdetto vi sia una ‘diagnosi’ di questo tipo: le dichiarazioni raccolte, della religiosa e dei testimoni, sono frutto di ‘florilegio emotivo’. Si, questi giudici (Gisana, Fragnelli e Longhitano, con il primo in qualità di dominus) scrivono proprio così: florilegio emotivo.
Non è dato sapere cosa vi sia, in realtà, dietro questa espressione singolare che, letteralmente, dobbiamo intendere come ‘raccolta’ o ‘antologia’ di emozioni. Così concludono i commissari e non c’è uno straccio di motivazione a riprova del loro verdetto. Dal che possiamo solo presumere che loro abbiano bollato i fatti riferiti come non veri e abbiano qualificato le relative dichiarazioni non come dolosamente mendaci ma frutto di una sorta di tempesta emotiva. Di ‘tempesta’ deve essersi trattato se essa ha prodotto una pioggia di emozioni così fitta da rendere possibile che se ne traesse una raccolta: appunto un’antologia.
Dunque, a loro avviso, solo emozioni e non fatti. Eppure quelli denunciati dall’ex religiosa sono proprio fatti, precisi e circostanziati in ogni dettaglio come emergerà dal processo penale che un anno dopo, a marzo 2018, vedrà il ‘quasi vescovo’ indagato, e in seguito, a luglio 2019, imputato di violenza sessuale aggravata in quanto <<nella veste di psicoterapeuta e nello stesso tempo di sacerdote costringeva la suora, sua paziente, a compiere e subire atti sessuali in diversi incontri tra il 2009 e il 2013>>. Intanto però, tra marzo e aprile 2017 il caso viene chiuso nelle segrete stanze del Vaticano con l’apparente rinuncia di Salonia il quale, proprio grazie a questo verdetto, la può dipingere volontaria e generosa.
Le testimonianze-verità di Dell’Agli e la reazione contro di lui:
falsata la provenienza delle lettere d’accusa a Salonia
In tutta la vicenda un dato da focalizzare è che dinanzi alla commissione presieduta da Gisana sia chiamato a testimoniare il sacerdote Nello Dell’Agli, collega di Salonia nell’attività professionale di psicoterapeuta e in quella di formazione e d’insegnamento. Ecco l’indizio pesante utile a capire il perché dell’assurda condanna inflittagli dal tribunale ad hoc chiamato a giudicarlo sulla base di accuse che lo stesso processo accerta essere totalmente infondate e insussistenti come documentato nella parte iniziale di questo articolo del quale a questo punto risuona l’amara verità cui perviene l’innocente condannato: <<se fossi stato omertoso, cioè se mi fossi rifiutato di testimoniare (ovvero – c’è da interpretare – se non avessi detto la verità, n.d.r.) non avrei subìto tutto quello che ho subito.
Quindi nessuna lettera d’accuse parte da Ragusa (tale non è quella di Dell’Agli richiesta dal Vaticano proprio per vagliare le ‘accuse’ pervenute da altre sedi e da altre fonti), a differenza di quanto la stampa scrive ad aprile 2017 quando scoppia il giallo sulle ‘voci calunniose’ contro il neo vescovo ‘congelato’; e a differenza di quanto lo stesso, indagato per violenza sessuale, un anno e mezzo dopo dichiara in prima persona ai pubblici ministeri che lo interrogano e che, compiute tutte le indagini, decidono di chiedere al tribunale di mandarlo a processo.
La pista di Ragusa messa in campo ha uno scopo preciso: mettere Dell’Agli nel mirino. Di vero c’è solo che il fondatore della fraternità Nazareth viene chiamato dalla commissione presieduta dal vescovo Gisana, e successivamente dalla magistratura penale italiana, a testimoniare sui fatti oggetto della lettera dell’ex suora. Abbiamo già visto che le sue dichiarazioni rese nella prima sede, pur concernendo specificamente i fatti per i quali si è reso necessario il supplemento d’indagine ecclesiastica, vengono classificate, come tutte le altre, ‘florilegio emotivo’, quindi non attendibili e comunque irrilevanti: tanto serve per la conclusione predeterminata e il verdetto da tempo già scritto. In proposito preoccupa e inquieta chiunque creda nella giustizia di ogni tipo, che la testimonianza di Dell’Agli risulti subito a conoscenza di Salonia e Lorefice, promotori e beneficiari dei servizi ad hoc della commissione.
Sulla vicenda è questo, in ordine temporale, il primo round di ‘InGiustizia’ Vaticana: il consapevole proscioglimento di un colpevole, a marzo 2017, atto strumentale alla via di fuga concertata a tavolino e menzogna ‘necessaria’ per coprire lo scandalo.
Il secondo riguarda la condanna inflitta di recente a Dell’Agli rispetto alla quale c’è da tenere presente che egli, un anno dopo quel ‘florilegio emotivo’ al cospetto della commissione-Gisana, rende testimonianza nel procedimento che vede Salonia indagato per violenza sessuale dinanzi alla procura di Roma alla quale – considerati la limpidezza e il rigore morale del teste – c’è da presumere che il sacerdote-teologo-psicoterapeuta fondatore della fraternità Nazareth ripeta le stesse cose e che i pubblici ministeri, alla luce delle conclusioni, le prendano sul serio. Lo attestano i materiali dell’inchiesta fino a quando, il 28 febbraio 2020, essa viene arrestata e sepolta con una sola motivazione: la querela è stata presentata (dalla suora del Nord Italia) oltre il termine consentito e quindi, qualunque verità sia emersa, il processo ‘non s’ha da fare’.
Ma ciò non ci impedisce di esplorare lo scabroso affaire nei suoi vari aspetti e in ogni piega, ricostruendo i fatti, tutti. Perché dove non v’era (forse) procedibilità ai fini dell’esercizio dell’azione penale c’è comunque, e senza dubbio alcuno, il pubblico interesse alla conoscenza, in cerca della verità che è ben altra e tutt’altra rispetto a quella servita da ‘inGiustizia’ Vaticana e cucinata tra Palermo, Roma e Ragusa.
Quest’ultima è la città in cui Salonia dichiara la propria residenza (nella parrocchia Sacra Famiglia) e dove svolge la sua attività professionale come direttore dell’Istituto di Gestalt Therapy Kairos che ha sedi – oltre che, appunto, nel centro ibleo – anche a Roma e Venezia. Ragusa è anche la città in cui vive Nello Dell’Agli e in cui si trova l’ormai soppressa fratenità Nazareth da lui fondata. Ma non è la città da cui partono le lettere di denuncia contro il frate cappuccino fatto vescovo.
1 – continua